Il LAC di Lugano presenta Albert Oehlen, “grandi quadri miei con piccoli quadri di altri”. La mostra, in programma dal 05 settembre 2021 al 20 febbraio 2022, prova a scardinare l’ermeticità del pittore tedesco ponendo i suoi lavori in dialogo con le opere della sua collezione.
Albert Oehlen (1954) vorrebbe sfuggire a qualsiasi classificazione. Sfruttando l’anarchico vantaggio dell’artista moderno (vantaggio che, in ogni caso, va guadagnato) di poter svariare nell’illimitato range di soluzioni artistiche consegnateci dalle avanguardie, Oehlen ha sperimentato nel corso della carriera gran parte delle sfumature che intercorrono tra la figurazione e l’astrazione. Un modo di riflettere il percorso fatto dalla pittura stessa, che poi è l’unica vera costante della sua ricerca. Eppure questo strenuo cambiare, a tratti, pare dettato più dalla refrattarietà tipica del punk (approccio che difatti apprezza) a lasciarsi definire, piuttosto che da una spontanea necessità di ampliare i confini della propria espressione.
Così, l’artista che rifiuta violentemente la cristallizzazione stilistica, cade nella trappola dell’estremo e finisce per definirsi proprio in questa cieca lotta. Il rinnovamento diventa per lui un elemento imprescindibile, un antidoto alla stasi, un vero e proprio metodo di lavoro. Tale rinnovamento si configura, nella pratica, in una pars destruens particolarmente accentuata. Oehlen non predilige uno stile, snobba la forma, non pare interessato al contenuto, trova ininfluente la ricerca di una comprensione complessiva dell’opera d’arte. In nome di una libertà cieca, vorrebbe negare qualsiasi tipo di analisi razionale del proprio lavoro. Non vi è alcun senso da ricercare al suo interno. Così facendo, fin dall’inizio della sua carriera, si è sempre sottratto a qualsiasi metodo interpretativo, ammantando la sua opera di un alone mistico estraneo a qualsiasi tipo di riflessione.
Per scardinare l’omertà, a tratti forse troppo retorica, dietro la quale si è rinchiuso, il LAC di Lugano (Svizzera) presenta una mostra dal titolo ironico e dall’intento audace. Albert Oehlen, “grandi quadri miei con piccoli quadri di altri” prova ad aprire un varco nel muro di incomunicabilità eretto dall’artista. Lo fa ponendo a confronto le opere del pittore con i quadri da lui stesso collezionati. Nonostante, per quanto detto sopra, sia impossibile stabilire collegamenti genealogici o appigli contestualizzanti, l’esposizione vuole innescare un dialogo che allo stesso modo è interno ad Oehlen (opere sue-opere da lui raccolte) ed esterno (opere sue-opere di altri).
Inserite in tale contesto, le ermetiche opere di Albert Oehlen sono costrette a parlare, a esprimere considerazioni o quantomeno suggestioni. Così un poster su tela come I3 (2009), che occulta il suo contenuto nel collage di pubblicità e offerte da supermercato, si svela nel confronto con Alter Ego (2007) di Richard Artschwager. Stanco delle difficoltà incontrate nell’acquistare l’opera, Oehlen ha optato per riprodurla, pur apportando le dovute modifiche. Sforzandosi si riconoscono, nonostante l’opera di occultamento, gli elementi cardine dell’interno immaginato da Artschwager: il tavolo, le sedie, le due figure umane.
Un simile aneddoto galleristico, diciamo, riguarda l’Untitled di Willem de Kooning. Vista la reticenza dei proprietari a cederlo, Oehlen è riuscito a entrarne in possesso scambiandolo con opere realizzate da lui. Questi piccoli intrecci biografici, come altri in mostra, raccontano quindi le passioni, le infatuazioni artistiche di Oehlen. Indirettamente tracciano anche un percorso nella sua poetica forzatamente criptica, che lui stesso ci svela attraverso questa esposizione inusuale.
In altre circostanze i rimandi sono invece di natura più spiccatamente formale. É il caso di un Untitled astratto (1997/2005) le cui trame cromatiche rispecchiamo i toni di Room at Chelsea (1972) di Malcolm Morley. Nonostante quest’ultimo sia di matrice spiccatamente espressionista, dall’accostamento con la composizione di Oehlen appare chiara la coloristica corrispondenza. Con questo non si insinua una diretta discendenza, quanto più una possibile reminiscenza inconscia, un ripresentarsi spontaneo di una suggestione precedentemente assimilata.
Più diretto invece il rapporto tra Space is the Place (2020) e i due Untitled di Jever. Quest’ultimo, artista semisconosciuto, fu amico del padre di Oehlen, al quale donò numerose opere. Il giovane Albert crebbe dunque circondato dai paesaggi astratti di Jever, realizzati tramite la giustapposizione di ampie campiture quadrati e rettangolari. Esse ritornano, in forma più ordinata e precisa, nell’opera di Oehlen esposta al loro fianco. Qui la stratificazione mnemonica esercita il suo tributo, allaccia in maniera quasi filologica la sorgente ispirazionale dell’opera con il suo risultato ultimo.
In definitiva, l’ermetico e reticente Oehlen, con questa mostra si mette in gioco in una maniera per lui inusuale, svelandosi attraverso le opere da lui collezionate piuttosto che attraverso quelle da lui realizzate. Poco male, è comunque un passo avanti.