Il clima del virus, una riflessione tra natura e cultura sulla contemporaneità della pandemia
La scoperta della “natura” sembra essere una sciagura, da più di un anno a questa parte. E, in effetti, questa scoperta deve suonare sempre di più come il nuovo nome di Dio invece che falsamente indicare quel complesso insieme di fattori biologici, fisici, chimici, che amiamo dissociare dalla “cultura”. Almeno da Cartesio in poi in forma compiutamente dualistica. Continuiamo qui su ArtsLife un percorso iniziato circa un anno fa (prima con Orlan, poi con Federica Timeto) sul rapporto naturacultura senza trattino, senza credere che ci sia un piano di verità (la natura) inquinato da uno spazio di soggettività (la cultura). Proveremo ad aggiungere un tassello di criticità (senza pretese di completezza) al quadro attraverso l’analisi di un punto di vista geopolitico su “Il clima del virus”.
La storica rivista italiana di geopolitica “Limes” ha dedicato l’ultimo numero del 2020 alla questione “natura” concentrandosi sulla morfologia geopolitica resa evidente dalla pandemia e da un certo discorso sul cambiamento climatico. Sono soprattutto le premesse di questa elaborazione il focus di questo articolo, tralasciando aspetti molto più specificamente legati ai conflitti tra potenze, politiche energetiche, tattiche di supremazia. E le premesse non possono che partire dall’editoriale del direttore Lucio Caracciolo dal titolo prorompente “Non siamo il mondo”. Quanto è vero…? E non solo perché “gli imperi hanno frontiere, mentre le democrazie hanno confini” (Seyla Benhabib, 2005, p. 769); dunque, un’affermazione che non è solo una constatazione. Il direttore introduce al numero con una critica, peraltro non nuova, a una sorta di universalismo cooptato dalla certezza scientifica (p. 12) invece che dal sentimento, che dovrebbe avvenire attraverso l’inesorabile accettazione dell’ ‘evidenza’, secondo cui conoscere dovrebbe comportare causa-effetto un reverenziale atteggiamento di uniformità. Il direttore cita Austin e la teoria degli speech-acts per consolidare uno dei principi-cardine a suo modo di vedere maggiormente utilizzati nella campagna di sensibilizzazione sull’emergenza climatica (Sottotitolo del numero: “Emergenze come armi. L’ideologia globalista e i suoi derivati. L’apocalisse non è per domani”).
Le parole usate come armi per creare un clima di allarme attorno alla gravità di una questione che, comunque, non viene negata (a questo proposito “Limes” mette a confronto due voci antitetiche come quella di Michael Shellenberger con ‘Il mondo non finirà. E noi nemmeno’ e quella di Bob Ward con ‘Quel che gli scettici non vogliono capire’, sebbene questa inquadratura rasenti un po’ il pericolo di equiparazione delle voci critiche a quelle ufficiali in termini numerici all’interno delle organizzazioni scientifiche, ben delineato in un seminario per STS Italia da Sabina Leonelli dell’Università di Exeter. Le parole che producono effetti reali e pretenderebbero di non restare nell’ovatta della narrazione. Effettivamente la svolta discorsiva dagli anni ’80 in poi ha assegnato un primato ai processi di significazione, immaginario, performatività della parola. Alla soggettività. Ed è qui il primo cortocircuito tra oggettività della scienza (e della natura) e soggettività umana (e della cultura) che non si risolve, proprio seguendo il punto di Caracciolo e l’impostazione di “Limes”.
Le parole sono proprio ciò che nella definizione di langue e parole (Saussure, 1916) connota la soggettività individuale, il modo in cui ogni parlante declina l’espressione di sé dato un certo contesto in cui è inserito (indipendente dalla sua volontà). Ecco, sembra proprio che l’invettiva del direttore di Limes contro un determinato utilizzo politico dei dati sulla pandemia e sull’emergenza climatica sia dettata da un (mancato) discorso critico sulla neutralità della scienza. Dibattito cruciale, non nuovo ai Science and Technology Studies, emerso finanche sulla stampa mainstream nel corso di quest’anno e mezzo per via delle posizioni di filosofi come Cacciari e Agamben (si veda il concetto di ‘nuda vita’ e la differenza tra zoé e bios in “Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita” di Agamben, 2005).
Il punto è che ciò in cui si dipana il numero è la proposizione di una oggettività altra, necessariamente dialettica (e violenta), in cui la presa di coscienza di condizioni/ostacoli comuni sia ‘fuffa globalista’ e in cui sotto accusa viene posto proprio un certo sentimento, una certa soggettività, una certa narrazione. Solitamente ambientalista, orientata ai diritti civili, che ritiene valga la pena di ri-pensare le attuali comunità proprio per superare enormi problemi che provengono da organizzazioni territoriali rigide e senza vera appartenenza (si veda a questo proposito Luca Steinmann sulla ‘Barriera verde che vuole salvare la Germania dalla geopolitica’; oppure, sempre sulla Germania, Fabrizio Maronta su ‘Non un tubo di meno: i due volti della Energiewende’). Insomma, quale politica ha in mente “Limes” quando afferma che “il covid-19 non è uguale per tutti”? E, soprattutto, quando tenta di inserire la violenza nell’indole umana…?
La natura. L’operazione di decostruzione di un primato scientifico sulla materialità (su questo si veda Traversa, “Culture & Psychology”, SAGE, forthcoming) si traduce in questo caso nella naturalizzazione del politico e di una visione della natura come monolitica, cieca, da dominare (tesi di Marsh ripresa in ‘L’uomo non è parte della natura, la domina’). Una sorta di evoluzionismo secondo cui i confini fra specie sono ben definiti, le relazioni tra viventi non sono dettate da un range di possibilità di adattamento – quindi mutabile – ma da un range di prescrizioni.
Cadendo in una fallacia naturalistica che fa dedurre il dover-essere dall’essere (Gould, 1991; J.B.S. Haldane). Senza poterci addentrare in interessantissime riflessioni sul cambiamento di paradigma come base dell’antropocentrismo e della strumentalità degli altri viventi (oggi si parla più in termini di ‘senzienza’ invece che di ‘coscienza’); senza poter argomentare sull’ecologismo misantropo (Editoriale Caracciolo) che teorizza l’impossibilità di un rapporto con gli altri viventi che non sia contactless (si veda a questo proposito una bella lezione della Prof. Sharon Krause su “Political Respect for Nature. If respect for nature is limited to the domain of ethics, it essentially leaves non-human beings and things more or less dependent on the kindness of strangers. How should respect for nature inform political institutions and practices?”).
Senza poterci soffermare sulla razionalizzazione dell’ (inevitabile) superiorità culturale occidentale su cui chi legge potrà farsi la sua idea: “Sarebbe geopoliticamente tragico se l’ordine economico e geostrategico costruito con sacrificio dagli Stati Uniti dopo la seconda guerra mondiale fosse spazzato via, perché nessun altro assetto promette oggi libertà e benessere analoghi agli standard americani e dei loro alleati.” (Nicholas Eberstadt, ‘Il capitale umano è la base della superpotenza’).
Dunque, quale natura ha in mente “Limes” quando discute sul “Perchè il virus non ha scalfito la gerarchia delle potenze” (Dario Fabbri, Parte II)? Qui la natura – senza nominarla – non ha mai un carattere etico, esistenziale, “il conflitto di potenza non si esplica perché ‘i popoli sono cattivi’ ma perché non ci sarebbe scritto da nessuna parte che un popolo debba sopravvivere” (da una puntata di Mappa Mundi “Il fattore umano”).
La sopraffazione è sempre e solo difesa. A questo riguardo è utile fare riferimento a quanto Fabbri nel suo articolo afferma sugli USA: “Esaltando la propria indole selvaggia per tollerare le morti causate dall’epidemia, per proseguire la propria azione internazionale, senza ritirarsi in patria. Stato di costante veglia che impedisce agli altri di profittare di un suo impossibile ibernamento – pena, incappare in un soggetto tanto rivolto all’esterno da registrare il record di morti”. Quanto la politica di ritenzione e gestione dei vaccini abbia parlato per la disponibilità degli USA al sacrificio interno invece che mancare di concentrarsi sull’esterno suggerirebbe, ad un anno di distanza, che non sia esattamente andata così. Ci hanno provato in molti a dimostrare che la violenza è una necessità naturale. Non mi sembra sia stata una bella idea… Molto più utile indagare le condizioni entro cui la naturalità della ribellione e la naturalità dell’obbedienza si realizzano, come emerge dal ricchissimo e caustico volume edito da Vicki Kirby “What if Culture was Nature all Along?” (“What if the drive for change is as natural as the desire to prohibit, refuse and conserve?”, Foreword, xii, Edinburgh Press, 2017).
“Il clima del virus” si inserisce in una delle prospettive auspicata da Kirby e da vari filoni del new materialism, ovvero quello di science-friendly humanities (si veda il dibattito sull’interdisciplinarietà sollecitato anche su “Nature”). Discipline umanistiche che si pongano nei confronti dell’evidenza scientifica in maniera curiosa, incline a rivedere principi di linearità spazio-temporale secondo canoni non meccanicistici, ma senza ignorare il sapere delle scienze naturali. Importante in questo senso l’articolo in cui si discute, metodologicamente e politicamente, la formazione dei database e della non generalizzabilità dei parametri che pure hanno guidato i governi nella loro azione di contrasto alla pandemia (Mike Eckel, Parte II, ‘I numeri non mentono quasi mai’).
Ma importante anche per interrogare quel concetto di post-storia che permea la posizione di “Limes” rispetto alla prevaricazione della negoziazione sul conflitto, tipico convincimento di società occidentali come quella europea che sarebbero ormai totalmente inclini al piacere, e non dedite al dolore (della gloria).
Come chi fa la “Storia”. Anche in questo senso mettere in discussione come e quando la violenza scriva la storia, dove e quando si qualifichi un’azione come violenta, quale sia il ruolo dell’agency individuale nell’assumersi la responsabilità della violenza (quindi compiere una scelta che sempre risponde a criteri etici, non è neutra), potrebbe contribuire alla messa in discussione di quel God-trick à-la Haraway che è la ‘natura’. Robin Morgan in Demon Lover (2001) a proposito dell’ ‘eroe’ parlava della creazione dell’amore-morte quale forma di liberazione e la tensione per il fato come già inevitabile morte. Entrambi ultimo residuo di ciò che un tempo si definiva passione. E non c’è una ‘natura umana’ responsabile per questo.