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La domanda dell’anno. NFT: sono solo figurine o c’è anche dell’arte in giro?

Nyan Cat, la gif
Nyan Cat, la gif

Qualche mese fa a livello globale è scoppiata la bolla NFT e tra alti e bassi sono stati spesi milioni di dollari (in cryprovaluta) su un numero considerevole di marketplace (SuperRare, NiftyGateway, OpenSea, etc…). Non è mia intenzione entrare nel merito dei tecnicismi del fenomeno in questo articolo, potete trovare on line contenuti molto più precisi e dettagliati. Mi interessa piuttosto cercare di capire se e come il mondo delle arti visive stia sfruttando questa stagione, o meno. 

La domanda che vorrei porre, a cui non ho ancora trovato risposta, è una: 

“C’è dell’arte qui dentro o stiamo solo spendendo tutti dei gran soldi?”

Non credo di banalizzare chiedendo semplicemente come mai siano stati spesi più soldi in NFT che in Old Masters (alle aste) negli ultimi sei mesi. 

Vediamo perché. 

Il fenomeno NFT nasce qualche anno fa, si tratta di una tecnologia che ci consente di registrare la proprietà di un file su blockchain. Il file non diventa unico, resta copiabile e duplicabile, come tutti i file insomma. È un file, è stato creato per questo, per essere diffuso. Attraverso l’NFT però lo si può commerciare. In virtù della sua “unicità”, diventa appetibile, e collezionabile. Anche se unico non è. Possiamo al massimo affermare che i diritti di proprietà di quel file sono di qualcuno, sta scritto sulla blockchain. Attenzione, su una blockchain. Ne esistono diverse, e non c’è un authority centrale che le raggruppa e le governa (e che le tuteli). Quindi, in ultima analisi, possiamo affermare che l’NFT altro non è che un certificato di autentica che fa sapere a tutti di chi è quel determinato file. Un’autentica simile a quelle che si vanno a richiedere negli archivi e nelle fondazioni degli artisti, strumento fondamentale che ci permette di commerciare un lavoro. Sappiamo bene che senza autentica le opere non si vendono. Non si può mandare all’asta un Burri senza autentica.
Bene, da oggi, con gli NFT, abbiamo con certezza la proprietà. Ed è un bel passo avanti. 

Ma proprietà di che, esattamente?

Il fenomeno si diffonde inizialmente per lo scambio di collectibles, di file digitali in voga, meme, figurine NBA, pietre miliari della storia dell’internet insomma. Tutte cose che con le arti visive c’entrano poco, o niente. E che interessano le community abitate dai più giovani, sostanzialmente under 30, occidentali, medio alto spendenti.  

In seguito alla vendita di Beeple da 69 milioni di dollari (marzo 2021, Christie’s, nella foto qui sopra) è iniziata con foga la corsa all’oro. Ogni giorno si scambiano forsennatamente file da una parte all’altra del globo, senza troppa strategia. Potete consultare gratuitamente tutti gli scambi su www.nonfungible.com. Anche gli artisti tradizionali hanno fiutato l’affare e diffuso sui marketplace specializzati opere fisiche digitalizzate, oppure nuove opere create apposta per la dimensione immateriale. Si sono affacciati sulla scena migliaia e migliaia di nuovi artisti, ex grafici, manipolatori del software. Tutti a proporre, a cifre molto spesso poco ragionevoli, le loro creazioni. 

Ebbene, sono mesi che mi adopero on line alla ricerca di arte digitale dall’alto coefficiente qualitativo, e devo ammettere di aver trovato veramente poco. 

Da un lato, è estremamente significativo ed interessante che opere che fino a poco tempo fa venivano declassate a video musicali o semplici animazioni, statiche o meno, oggi possano assurgere a livello di arte vera e propria, roba da esporre in un museo per intenderci. Dall’altro, questo liberi tutti non ha fatto altro che confondere ancora di più le idee in un momento storico completamente globalizzato e impersonale, dove un artista brasiliano e uno canadese o giapponese si mettono a fare esattamente la stessa cosa. 

Un frame del video dei Tool “Schism”, diretto da Adam Jones, vincitore di un Grammy nel 2001. 

È bello vedere che oggi un video dei Pink Floyd o dei Tool possa essere finalmente considerato un’opera d’arte, perché lo è, personalmente mai ho avuto dubbi in merito. È bello pure che chi fino al 2015 poteva soltanto considerarsi maestranza specializzata, artigiano della non materia, possa oggi provare a fare l’artista. 

È però triste verificare come le idee siano poche e confuse. 

Molti dei nuovi alfieri dell’arte digitale internazionale non sono formati, e non si accorgono come le loro creazioni non siano spesso altro che rielaborazioni di cose già viste, già fatte, meglio, da altri. Non studiare il mondo dell’arte fa si che il plagio sia dietro l’angolo. E pure il pubblico, altrettanto ignorante, non si rende conto che quella che sta acquistando è una cosa masticata, rimessa in bocca, masticata ancora e poi sputata. Non un lavoro unico, personale, nuovo, ma solo una rimodulazione digitale di un’idea precedente. 

Siamo davanti ad un fenomeno, quello degli NFT, dove migliaia di persone si sono infilate solo ed esclusivamente per guadagnare. Non c’è nessun motivo, se non quello di speculare, che può portare un piccolo investitore a comprare e scambiare dopo poche ore un cripto punk (il più caro è passato di mano a giugno 2021 da Sotheby’s per 11.8 milioni di dollari) o una scimmia annoiata (Bored Ape Yacht Club).  

I CryptoPunks

Siamo convinti che questa sia una moda? Non credo, non penso che chi ha speso milioni di dollari in questo universo sia disposto a far crollare tutto come niente fosse. D’altronde, un mercato di autentiche non è un mercato dell’arte. Perché manca l’arte. 

L’arte è in definitiva qualcosa che certamente non siamo ancora riusciti a spiegare con le parole giuste nemmeno dopo 3000 anni di storia, di estetica e di logica. Ma non credo, con tutta la disponibilità mentale del caso, che i cripto punk o le scimmie annoiate ne facciano parte. Siamo forse spettatori di un fenomeno che coinvolge un collezionismo affezionato nei confronti di oggetti digitali che hanno popolato la nostra esistenza degli ultimi anni. 

Se volete trovare alcuni NFT dal livello qualitativo più alto, potete provare a consultare le mostre del museo MOCDA, che propone scelte dal taglio più curatoriale e meno speculativo.

Questa non vuol essere una riflessione esclusivamente negativa del fenomeno, sono certo che l’arte di domani sarà inevitabilmente digitale. I nuovi artisti hanno a disposizione una tavolozza potenzialmente infinita. 

Serve però, forse, qualcosa in più. 

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