Giovedì 28 ottobre 2021, dalle ore 18 alle ore 20, il Museo Diffuso della Resistenza, della Deportazione, della Guerra, dei Diritti e della Libertà di Torino presenta l’incontro Zehra Doğan. Arte e libertà. Resistenza, creatività e prigionia di un’attivista curda con la pittrice e giornalista curda Zehra Doğan, nell’ambito del progetto integrato Polo internazionale. Avere vent’anni in… Siria e Libano, Balcani, Egitto e Turchia, all’interno della programmazione culturale 2021 del Polo del ‘900, Dove portano i Venti. Crisi, transizioni, opportunità del nuovo decennio.
«Abbiamo deciso di ospitare questo dialogo aperto alla cittadinanza, in linea con la missione del Museo che è anche Museo dei Diritti e della libertà, non solo per valorizzare l’esperienza dell’attivista politica e della giornalista perseguitata e imprigionata per le proprie idee, ma anche per riflettere sulla condizione dei giovani intellettuali e artisti cui sono negate libertà e parola in tutto il mondo e specialmente in Medio Oriente, a partire dall’esperienza esemplare di Zehra Doğan , riuscita negli anni a veicolare con alto livello estetico messaggi di libertà che vengo rafforzati dai linguaggi del contemporaneo» ha detto Roberto Mastroianni, presidente del museo.
Zehra Doğan (1989) da anni porta avanti la sua attività di artista insieme a quella di giornalista, lottando per i diritti umani e denunciando le violenze del regime turco contro il popolo curdo. Dopo aver lavorato come capo redattrice presso la prima agenzia di notizie al mondo gestita da donne, la Jinha, la Doğan è stata arrestata nel 2016 per «propaganda per conto di organizzazioni terroristiche» in seguito alla pubblicazione di alcuni post contro il governo di Ankara. In particolare a causa di una sua opera, dedicata alla distruzione della città turca a maggioranza curda Nusaybin. Condannata a quasi tre anni di carcere, l’artista continuerà anche in cella a portare avanti la sua campagna di denuncia, ottenendo supporto e solidarietà da organizzazioni come Amnesty International e da artisti come Banksy e Ai Weiei.
«Nel primo carcere, a Mardin, mi avevano permesso di dipingere; invece nel secondo centro di detenzione, a Diyarbakir, niente. Io, in ogni caso, ho dipinto; sulle magliette, sui giornali oppure sulla carta igienica. Ho utilizzato i residui del cibo, i miei capelli ma anche il mio sangue mestruale. Questa, per me, è una forma di resistenza contro questa cultura maschilista che maledice la donna da circa cinquemila anni. Penso di aver creato un buco nel muro della censura e della violenza che ha paura anche della pittura. Inoltre, le mie compagne di cella mi hanno aiutata a procurarmi i materiali, a nascondere i dipinti e a farli uscire fuori dal carcere, cosa che era vietata. Quindi si può parlare di una resistenza femminile collettiva che abbiamo organizzato dentro la prigione».
L’incontro, aperto a tutti su prenotazione, si svolgerà presso il Polo del ‘900 e potrà essere seguito anche in diretta FB e YouTube sui canali dell’istituzione.