Se per gli altri non ero quel che finora avevo creduto d’essere per me, chi ero io?” (Luigi Pirandello, ‘Uno, nessuno, centomila’)
Ironiche. Spudorate. Iconiche. 61 opere del fotografo Sandro Miller, con protagonista una Musa d’eccellenza – l’attore statunitense John Malkovich – sono esposte alla Fondazione Stelline di Milano fino al 6 febbraio 2022. La mostra, dal titolo Malkovich, Malkovich, Malkovich. Homage to Photographic Masters presenta una delle serie più famose e celebrate dell’artista statunitense.
Un vero inno al nostro Io multiforme e alle varie sfaccettature di cui è provvisto l’essere umano: chi siamo per gli altri?
L’esposizione, a cura di Anne Morin e organizzata da Skira, propone 61 immagini che rendono omaggio a trentaquattro maestri della fotografia, come Albert Watson, Annie Leibovitz, Bill Brandt, Diane Arbus, Herb Ritts, Irving Penn, Pierre et Gilles, Richard Avedon e Robert Mapplethorpe, in cui John Malkovich – amico e complice di Miller – reinterpreta i celebri scatti, trasformandosi di volta in volta in personaggi iconici come Marilyn Monroe, Salvador Dalì, Mick Jagger, Muhammad Ali, Meryl Streep, John Lennon e Yoko Ono, Andy Warhol, Albert Einstein, Ernest Hemingway e tanti altri.
Ognuno di noi ha un eroe o una persona che ammira. Li lodiamo, li veneriamo e li mettiamo su un piedistallo. Può essere una figura religiosa, un attore di Hollywood, una star dello sport come Tiger Woods o Michael Jordan. Per me i grandi maestri della fotografia sono come i campioni sportivi: ho ricreato le loro fotografie in segno di rispetto, amore e ammirazione.” (Sandro Miller)
Gli scatti sono preceduti da una minuziosa ricerca in cui Miller e Malkovich – assistiti sapientemente da costumisti, truccatori e scenografi – analizzano con minuzia ogni dettaglio degli originali, scandagliando i lavori dei grandi fotografi per fare emergere al massimo virtù, contraddizioni e debolezze dei personaggi ritratti.
La collaborazione tra i due sagaci artisti, iniziata negli Anni ’90, ha permesso nel tempo a Miller di riprodurre con enorme perizia tutti i dettagli delle fotografie prese a modello: dagli elementi che compongono il set, ai particolari tagli di luce, alle sfumature di colore o bianco e nero, esaltando le doti camaleontiche di Malkovich, che in ogni posa muta non solo espressione, ma anche sesso ed età divenendo uomo o donna, anziano o bambino, sensuale o enigmatico, cupo o gioioso.
Non volevo fare una parodia: avevo davvero l’intenzione di rendere omaggio a quei maestri e ai loro scatti, che hanno cambiato il mio punto di vista sulla fotografia. Le loro immagini sono state una grande fonte di ispirazione per me, facendomi diventare il fotografo che sono oggi. Per farlo, avevo bisogno di un attore che mettesse in gioco tutto se stesso. Mi piacerebbe che la gente le guardasse e avvertisse la loro potenza evocativa, la forza narrativa di ogni singolo ritratto. Queste immagini sono iconiche perché richiamano un sentimento, un pensiero o un ricordo indimenticabile.” (Sandro Miller)
Si tratta dunque di un gioco pirandelliano di maschere e identità, ma di tipo assai serio: che cos’è l’appropriazione dell’opera e quella indebita? Dove si trova la soglia tra la finzione e la realtà? Quando e dove entra in scena l’ironia? Queste e molte altre domande sorgono ammirando le opere di Miller, in un crescendo tra lo stupore per l’impeccabile perfezione stilistica e la sinergica capacità dei due artisti nel far ridere di gusto. Una combo che fa sì che realtà e illusione si fondano, creando una mix inconfondibile e inimitabile.
Qual è la sua fotografia preferita o – perlomeno – quella che la rappresenta di più?
E’ molto difficile dire quale sia la mia preferita. E’ stato a sedici anni, quando iniziai a studiare e ad amare la fotografia, che presi spunto da queste immagini iconiche. Quando le vedevo in una galleria, in un libro o altrove, le mie gambe iniziavano a “sciogliersi” dall’emozione. Mi smuovevano qualcosa dentro enormemente. Sono tutte molto intime per me, ma se proprio dovessi sceglierne una, sceglierei lo scatto a Picasso del celebre Irving Penn.
Fu l’immagine che fece iniziare la mia carriera. La guardai e – a sedici anni – capii che la mia vita sarebbe cambiata. Mia madre stava crescendo tre figli da sola, la mia vita era un disastro: ma dal momento in cui vidi quello scatto, compresi che la mia vita aveva uno scopo. Inizia poi a fare foto professionali dai diciott’anni in avanti.
Come mai la connessione con teatro, cinema e tutto l’ambiente dell‘entertainment? Qual è stato il fil rouge che lo ha condotto a un’idea così singolare?
I film per me sono la vita. Il cinema è vita che scorre. Si impara così tanto da ciò che si vede nei film. Io ho questa forte affetto verso le persone, un affetto che è quasi viscerale. Mi piacciono le storie della gente, comprendere le loro gioie o i loro fallimenti. Ho sempre cercato di entrare in empatia con le persone. Forse perché mia madre ha avuto una vita veramente dura, quindi il mio cuore sin da giovane ha capito cosa significasse provare un dolore forte. Il cinema è una piattaforma colma di sentimenti. Voglio trasmettere le stesse sensazioni del cinema con le mie foto: amo che la gente si senta in forte connessione con le immagini che produco, perché tutti devono sentirsi capiti [ndr: calca sul to feel], come se li conoscessi davvero. Voglio davvero continuare il mio lavoro attraverso le storie altrui.
Quindi lo scopo più importante è trasmettere empatia con i suoi scatti?
Non solo empatia, ciò che voglio sono le emozioni. Quando mi rendo conto di riuscire a far provare emozioni, sono sicuro di essere sulla strada giusta: nel momento in cui riesco quasi a toccare i sentimenti altrui e a far stare meglio le persone, rallegrando le loro giornate, so di aver concluso il mio lavoro.
Le due ore di visita sono volate: è tempo di guardarsi intorno un’ultima volta. La finzione supera la realtà (o forse la migliora?) e per un momento non si sa più chi o cosa vi sia davvero rappresentato. E’ tutto assurdo, ma perfetto. E, dunque, che la magia abbia inizio.
Che avevano da vedere i miei pensieri con quei capelli, di quel colore, i quali avrebbero potuto non esserci più o essere bianchi o neri o biondi; e con quegli occhi lì verdastri, che avrebbero potuto anche essere neri o azzurri; e con quel naso che avrebbe potuto essere diritto o camuso? Potevo benissimo sentire anche una profonda antipatia per quel corpo lì; e la sentivo.” (Luigi Pirandello, ‘Uno, nessuno, centomila’)
SANDRO MILLER. MALKOVICH, MALKOVICH, MALKOVICH.
Homage to Photographic Masters
Milano, Fondazione Stelline
Aperta fino al 6 febbraio 2022
A cura di Anne Morin
Orari: dal martedì alla domenica, 10.00 – 20.00
(la biglietteria chiude mezz’ora prima)
Biglietti:
Intero: €10,00
Ridotto: € 8,00
Ridotto speciale: €6,00
Ridotto scuole: €5,00
Fondazione Stelline
Corso Magenta 61, 20123, Milano
tel. +39.02.45462.411