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Una festa. Una culla. Un appuntamento tra amici. Fare una mostra secondo Luca Massimo Barbero. INTERVISTA

Luca Massimo Barbero
Luca Massimo Barbero
Luca Massimo Barbero è curatore di fama internazionale. Tra i ruoli che ricopre, è direttore dell’Istituto di Storia dell’Arte della Fondazione Cini, curatore associato della Peggy Guggenheim Collection di Venezia e consulente scientifico della Fondazione Lucio Fontana. Tra le ultime mostre curate menzioniamo, ad esempio, quella di De Chirico a Palazzo Reale a Milano (2019) o quella sugli Ambienti spaziali di Fontana dal 1948 al 1968 (Hauser & Wirth, Los Angeles, 2020). Di recentissima curatela, possiamo citare la mostra sulla pittura degli anni ’80, Painting is back, tenutasi alle Gallerie d’Italia (giugno-ottobre 2021) e la sezione dedicata alle collezioni di Intesa Sanpaolo ad Artissima, intitolata Vitalità del tempo (5-7 novembre 2021).
Progetti ancora in corso, visitabili a Milano, sono la mostra Matacubi (sculture create da Pietro Consagra dal 1985 in poi, fino al 27 novembre) presso Nilufar Gallery, in cui Barbero ha dimostrato la propria abilità nell’utilizzo della luce in un contesto espositivo, e Venice Time Case, alla Galleria Tommaso Calabro fino al 26 novembre. Venice Time Case è un progetto itinerante con prima tappa a Milano. Luca Massimo Barbero ha voluto riunire cinquanta artisti emergenti attivi nell’area lagunare di Venezia. Il formatto è stato imposto: ogni artista ha dipinto su una tavola di 36,9 x 29,3 cm. Le opere sono state così trasportate in galleria all’interno di una serie di valigie Fly Case realizzate appositamente per questo progetto. L’insieme dei dipinti viaggerà per l’Europa e verrà esposto in diversi spazi (la prossima tappa è Parigi). Alla conclusione del ciclo di mostre, i lavori verranno acquistati, tutti insieme, da un museo di arte contemporanea.
Parlando di mostre e curatela, Luca Massimo Barbero racconta abitudini, preferenze, metodi (oppure anti-metodi…) ed emozioni…

Quanto influisce uno spazio su come progetti una mostra?

Per me tutte le mostre nascono esclusivamente per uno spazio quindi non riesco a fare una mostra itinerante che sia uguale dappertutto. Le mostre cambiano, devono cambiare. Riconosco che ho un rapporto con lo spazio molto determinante e determinato.

Anche se non allestisco mai delle cose complicate dal punto di vista delle costruzioni architettoniche, scenografiche, eccetera.

Ad esempio, per la mostra sugli anni Ottanta? Come l’hai progettata pensando allo spazio?

Conosco lo spazio delle Gallerie d’Italia bene perché avevo già fatto una mostra. Ho considerato il fatto che è uno molto ricco (ci sono marmi, bronzi, cinque tipi diversi di pietre, ferri battuti…), è molto prezioso ma anche molto difficile per l’arte contemporanea, che è più secca, più povera, se vogliamo. Ho pensato che sicuramente per far vedere bene i quadri dovevano essere pochi, selezionati in base alle dimensioni. Poi per me era importante creare delle fughe prospettiche che isolassero ma legassero anche le opere tra di loro. La soluzione per il grande salone è stato questo velario molto interessante che abbassa un po’ la volta e che rende tutto un po’ omogeneo, questo see-through dell’architettura e questa luce blu, insieme al suono. L’acqua di Studio Azzurro legava insieme a questo blu le opere.

Marta Naturale da Tommaso Calabro, VENICE TIME CASE

Ci racconti il segreto delle tue luci?

Io ho due modi. O faccio stanze completamente illuminate (tipo Palazzo Strozzi, tipo Guggenheim) dove non si vede la luce perché diffusa (che non è mai bianca, ovviamente…) oppure faccio questi cannocchiali prospettici in cui i quadri sembrano di vivere di una luce propria. È la luce che da il ritmo di tante mostre. In Painting is Back, entravi e avevi il Cucchi così, davanti. Le stimmate, si intitola. È un quadro molto forte. E già li riassume tutto: Leopardi, le Marche, Giotto, Sassetta, la poesia, Van Gogh, la provincia. E poi passavi nel Grande Salone completamente blu che aveva un suo suono, che era illuminato dai monitor (che erano molto pittorici). Poi quadri piccoli, molto puntati, poi certe sale in cui i quadri sembrano retroilluminati…la luce è sempre calibrata. È molto importante. È una cosa molto difficile nel nostro lavoro e nei musei, e oserei dire che in Italia anche nei ristoranti spesso noi italiani sbagliamo la luce. In ristoranti bellissimi, a volte, c’è una luce troppo abbagliante. Io chiedo spesso agli architetti e ai luminotecnici con cui lavoro di avere almeno tre modalità: luce “lavata” contro le pareti, luce puntata nel buio e poi una luce nei musei che si possa usare di notte, come una scintilla. Non è così facile. Questa cosa di puntare i quadri mi viene da una stampa dove si vede Napoleone che visita il Louvre di notte, e ci sono questi signori che tengono queste enormi torce per fargli vedere i quadri nel buio. Spesso quando vai nei musei di arte antica, che io adoro, fai anche lo sforzo di pensare a dove fossero. E generalmente erano chiese, non illuminate. C’erano finestre alte, c’erano candele. La luce è come l’ombra. È fondamentale per l’immagine.

Parlando sempre delle Gallerie d’Italia a Milano, com’è esporre in uno spazio in cui precedentemente era stato esposto Tiepolo?

Il mio desiderio più grande è che chi va a vedere Tiepolo o Hayez sia venuto anche a vedere gli anni ’80. Penso che la cosa più importante sia mescolare pubblici. Non credo neanche che una galleria debba solo fare contemporaneo duro senza didascalie, non raccontando niente. Io trovo che il mio lavoro sia quello di aprire a un pubblico che non sa già o che magari pensava di essersi fermato, come buona parte degli italiani, a Canova, e invece può apprezzare il ventesimo secolo. È anche una questione di abituare il pubblico, abituarlo a non avere più paura. Però bisogna saper raccontare.

Come concepisci e come vivi, da curatore, le tue mostre? Mostre che spesso sono completamente diverse fra di loro. Penso a quella del 2019 su De Chirico a Palazzo Reale e quella appena conclusa Painting is Back. Sono mondi opposti?

Le mostre non sono mai diverse. Nel senso, sono diverse perché sono diversi gli artisti, quindi è diverso anche il modo in cui ti approcci.

Milano, Gallerie D’Italia, Intesa San Paolo, Mostra Painting Is Back, anni ottanta la pittura in Italia; allestimento

Quando dici che le mostre non sono mai diverse intendi che il lavoro curatoriale ha sempre lo stesso metodo?

Avessi un metodo… ma sai, penso che la cosa fondamentale sia capire perché. Perché la vuoi fare. Io non facevo una mostra di De Chirico da trecento milioni di anni, poi era stata una antologica con altri. Ma De Chirico è il mio amore. Mi sarei dovuto laureare su di lui.

E quindi già l’idea che uno possa essere uno studioso di Fontana e fare una mostra su De Chirico può sembrare molto strano. Ma sentivo che ci fosse il bisogno di farla. Non per i soliti motivi, perché io faccio le mostre per me. Cioè, ho dei dubbi sulla qualità di un artista, quindi per togliermeli faccio una mostra. Ho questa fortuna. O questa dannazione. Forse in Italia l’unico dubbio che ho avuto tantissimi anni fa e che ho risolto senza fare una mostra è che a un certo punto non riuscivo più a capire la qualità estrema di Burri. Quindi sono andato a Città di Castello a guardare Burri nell’unico museo monografico veramente intenso. Perché esci e hai respirato Burri con una densità e intensità incredibili.

Per altri autori, ad esempio, non hai un luogo dove vai ad immergerti. Allora fai le mostre.

Con De Chirico non è stato così. Non ho mai avuto dei dubbi sulla qualità. Ho pensato: bisogna fare una mostra di De Chirico per i giovani. È la prima mostra che ho pensato esclusivamente per i giovani.

Era molto filologica.

Era nascostamente filologica ma era anche di grande ritmo quieto, dove potevi vedere le cose, c’era spazio… non era un libro. Perché una mostra non è un libro. Era, mi dicono, ben raccontata. Prima volta in vita mia che i giornali hanno detto “finalmente le scritte si leggono e si capiscono”. E questo per me è molto importante. E devo dire che (e lo dico per vanità) non mi era mai successo, anche perché io non avevo mai fatto mostre a Milano, per una strana scelta, che il Corriere della Sera e Repubblica, entrambi, il giorno dopo scrivevano “se ci fosse una mostra perfetta questa sarebbe la mostra perfetta”. Questo mi ha fatto molto piacere. Anche se le mostre perfette non esistono.

Immagini dalla mostra "de Chirico", Palazzo Reale, Milano. Foto Artslife
Immagini dalla mostra “de Chirico”, Palazzo Reale, Milano. Foto Artslife

Sei entrato nel mondo Instagram in occasione di quella mostra, no?

Sì, li è nato anche il mio rapporto con Instagram, che ho dovuto fare per ragioni di lavoro. All’inizio non volevo farlo. Pensavo “ma che senso ha? Non mi piace, non mi diverto”. Poi paradossalmente il mio Instagram si è identificato con Giorgio De Chirico. George c’est moi…era stato un bel gioco.

(su Instagram: @lucamassimobarbero)

Cosa vuoi lasciare a chi guarda le tue mostre?

Io dico sempre una cosa fondamentale, citando De Chirico, “fare una mostra è fare una culla, non fare una tomba”. Per me è molto importante. Non voglio dire tutto su un artista, su una corrente artistica. Voglio fare una mostra come se fosse una culla. In una culla stanno le cose belle. Le cose che crescono. E poi da quello sarà bellissimo vedere cosa ne faranno gli altri. Quindi sugli anni ’80 se qualcuno vorrà fare una mostra di Schifano, se qualcuno vorrà fare una su De Dominicis…mi piace questa idea, che dalle mie mostre poi altri abbiano nuove idee e creino altre cose. Quella su Cardazzo ha generato sei, sette mostre. Poi io a volte collaboro, a volte no. Ma non importa. L’importante è che se fa venire voglia a qualcuno di fare un progetto su qualche autore, vuol dire che la mostra funziona. Se invece chiude e tappa e dice “basta, è finita”…sembra che non ci sia nessuna speranza.

Lucio Fontana Ambiente spaziale con neon [Spatial Environment with Neon Light] 1967/2020 Reconstruction authorized by Fondazione Lucio Fontana Installation view, ‘Lucio Fontana. Walking the Space: Spatial Environments, 1948 – 1968,’ Hauser & Wirth Los Angeles, 2020 © Fondazione Lucio Fontana by SIAE 2020 Courtesy Fondazione Lucio Fontana, Milano and Hauser & Wirth Photo: Fredrik Nilsen
Lucio Fontana
Ambiente spaziale con neon [Spatial Environment with Neon Light]
1967/2020
Reconstruction authorized by Fondazione Lucio Fontana
Installation view, ‘Lucio Fontana. Walking the Space: Spatial Environments, 1948 – 1968,’ Hauser & Wirth Los Angeles, 2020
© Fondazione Lucio Fontana by SIAE 2020
Courtesy Fondazione Lucio Fontana, Milano and Hauser & Wirth
Photo: Fredrik Nilsen

Dicevi prima che le mostre le fai per te. Quante volte torni a vederle?

Pochissime, io non torno quasi mai.

Quindi per te l’importante è il prima, lo studio, la ricerca, l’organizzazione…?

Alla conferenza stampa per me la mostra è finita. E la sera dell’inaugurazione la rifarei già in un altro modo. Sempre.

Cosa cambieresti?

Cambierei sempre qualcosa. C’è una “leggenda” fra gli operatori. Che io sono quello che da quando arrivano i quadri a quando non si inaugura praticamente vive nello spazio espositivo e controlla qualsiasi cosa. Ma non vado mai a smontare le mostre.

Poi c’è quest’altra leggenda che dice che io sono un curatore molto esigente. In realtà è proprio il rapporto del costruire la mostra. Perché tu puoi avere tutte le tue concettualità, i tuoi modi, eccetera. Però fino a quando non c’è “il corpo” non sai veramente come sta, come ti muovi, come si muove lui, che colore ha rispetto allo spazio, rispetto al passo, rispetto all’angolo dello sguardo…Ma lo faccio tutto con grande serenità.

Io devo stare in mostra. Non esiste una mia mostra che sia stata appesa nello stesso modo in cui era stata progettata. Poi io ho tutto un procedimento. Disegno ancora a mano, poi facciamo la maquette su carta, poi al computer, poi la ristampo…Ma non ce n’è una che sia stata fatta esattamente come sul progetto. Perché poi improvvisamente basta un colore leggermente diverso di un quadro che non avevi fatto in tempo a vedere, una cornice di un certo tipo (io se posso le tolgo quasi sempre). Una mostra è un corpo vivo.

Poi quando la apri capisci che hai smesso di farla per te. E in fondo se fai una cosa per te, bene, probabilmente la fai bene anche per gli altri. Io trovo che se un curatore dice che lo fa perché noi siamo sociali…sta mentendo spudoratamente. Noi siamo vanitosi, siamo personalità con un ego spiccato. Ma quando apri la mostra è un momento talmente tuo che è collettivo. Non pensi a chi dovrà venire, ma pensi a come i quadri debbano stare bene.

Penso anche che fare una mostra è come fare una festa. C’è un grande quadro che io amo molto di di Max Ernst, Au rendez-vous des amis. Ogni volta dico che una mostra è un rendez-vous des amis. Quando il più possibile degli invitati arriva, allora la festa è completa. Ne manca sempre qualcuno. Ma così ne fai un’altra.

Luca Massimo Barbero
Luca Massimo Barbero

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