Il Buco, il documentario di Michelangelo Frammartino sulll’Abisso di Bifurto premiato a Venezia 78
Dalla Calabria con furore. Michelangelo Frammartino non è un cineasta per le masse, e non lo è neanche per i cinefili più pop. Frammartino viene dalle installazioni, dal cinema d’arte e dalle letture teoriche quali Walter Benjamin, ma soprattutto Andrè Bazin. Più volte nelle interviste ha ricordato di come il suo obbiettivo sia stravolgere il rapporto tra il pubblico e l’immagine cinematografica. È con questo spirito che gira il suo primo film Il dono (2003). Una macchina da presa fissa che inquadra il terreno scosceso della Calabria, i suoi abitanti e i suoi animali. L’obbiettivo era quello di creare ciò che teorizzò Bazin quando parlò di cinema moderno. Un cinema che lascia completamente libero lo spettatore di concentrare la propria attenzione dove lo desidera.
La ricerca va poi avanti con Le quattro volte (2010), un capolavoro che sembra spezzare le catene divisive tra fiction e documentario. Molto spesso ciò che fa Frammartino, oltre al voler celebrare le riflessioni di Bazin, è quello di voler creare una diversa forma mentis con il quale lo spettatore guarda il film. Le inquadrature, da sempre, nel cinema narrativo convenzionale, sono fatte a forma umana: c’è il primo piano, il campo medio, il piano americano… Tutto parte dall’uomo, dalla presenza umana e dall’empatia che si prova nel guardare un’altra persona agire, sentire e parlare. Il cinema di Frammartino tende a chiedersi, invece, come si racconta una storia senza la presenza forte e prepotente dell’uomo. Come si racconta una storia di luoghi e animali, di ombre umane e rumori, suoni, colori.
Ecco che allora per riprendere le capre in Le quattro volte Frammartino studia da che altezza bisogna inquadrarle, come bisogna gestirle, come dirigerle, come organizzare il set…
Mai la Calabria ha avuto l’onore di avere un occhio così attento e acuto per descrivere la propria anima, le proprie arie e i propri luoghi.
Un film sul buio. Il Premio speciale della giuria a Venezia se lo doveva prendere per forza questo magnifico ultimo lavoro di Frammartino, Il Buco. Siamo nel 1961 nel parco nazionale del Pollino, tra la Basilicata e la Calabria. C’è tantissima natura e silenzio, un piccolo paesino antichissimo e ancora una volta gli animali che vagano beati nel verde. Un gruppo di speleologhi provenienti dal Nord scendono in Calabria per scendere ancora più in basso, esattamente 683 metri sotto terra.
All’inizio del film vediamo che la sera le persone del paese si riuniscono davanti all’unica televisione condivisa del bar e guardano in silenzio i programmi di questa nuova tecnologia. Vediamo del materiale di archivio che mostra una trasmissione dell’epoca in cui un giornalista sale sul grattacielo Pirelli, uno dei palazzi all’epoca più alti di Milano e d’Italia.
Milano si avvicina al boom economico, il mondo risale dopo la seconda guerra mondiale, qualcuno si prepara per andare sullo spazio e invece, i nostri speleologi scendono, al buio, in Calabria, in un mondo fermo quasi all’Ottocento.
I dialoghi del film li sentiamo quasi senza volerlo, lontani e collateralmente. Anche le persone d’altronde non le vediamo quasi mai per intero, sono sempre poco interessanti per l’occhio di Frammartino. Sono invece importanti i rumori, i suoni, i colori della grotta, i movimenti degli speleologi e l’oscurità.
C’è però un pastore che sta più simpatico a Frammartino e che più gli speleologhi infrangono la sua terra natia più sta male, fino alla morte. Sembra così un antico e mitologico guardiano divino del parco, della terra e della verginità sacra del luogo.Il film nel film. Coppola è il re del cinema per la vita. Apocalypse Now (1979) è un capolavoro assoluto e come tutti i capolavori ha più strati. C’è Conrad, c’è la guerra in Vietnam, c’è l’imperialismo, c’è l’esistenzialismo e poi c’è il cinema per la vita. Apocalypse Now è uno di quei film che non racconta solo la storia del film, ma anche e soprattutto la storia della lavorazione del film. Ogni immagine rimanda al modo e al coraggio che uomini hanno avuto per catturarla e metterla in gabbia, come se fosse un animale feroce. Un altro pazzo del genere è Herzog che con Fitzcarraldo (1982) o Aguirre (1972) ha messo a repentaglio la sua salute mentale e fisica (La conquista dell’inutile, 2014, è forse una delle letture più belle e impressionanti sul cinema e sul fare cinema).
Ora, scendere a 683 metri in una grotta (l’Abisso di Bifurto), con tutte le attrezzature in spalla, con il carico di lavoro stressante già in superficie, delle scadenze e obbiettivi, è un’azione completamente notevole. Mentre si guardano le immagini di questi speleologhi che scendono in questa grotta oscura e inesplorata si ha come la sensazione concreta delle pareti, degli echi e dei rumori del posto. Frammartino ci fa sentire partecipi dell’opera, dell’esperienza e ci porta con lui nel buio alla scoperta di qualcosa che ancora non è stato scoperto. Tutto questo sembra un invito, un invito ad addentrarci dell’oscurità e nel buio per scoprire e imparare sempre di più. Solcare foreste inesplorate e rivalutare, stravolgere, correggere, riformulare.
Anche la forma cinematografica è una giungla alla quale bisogna trovare nuovi sentieri e nuove vie d’accesso. Scoprire e non nascondere, risorgere.