Beginning di Dea Kulumbegashvili, un atto d’accusa contro la violenza sulle donne. Intervista alla regista. La Georgia, le donne e il cinema
Beginning, inizio. Georgia. Yana (Kakha Kintsurashvili) è un’attrice che ha rinunciato alla propria carriera per sostenere l’attività del marito, esponente di una comunità religiosa. In seguito a un violento attacco alla sede della congregazione, un detective si avvicina sempre più alla donna… Costretta al silenzio, in una cultura incapace di ascoltare le donne, Yana compie una scelta estrema.
Inizialmente selezionato per Cannes 2020 (l’edizione che non ha mai visto la luce), Beginning, esordio sul grande schermo di Dea Kulumbegashvili, ha fatto il giro dei festival più importanti di tutto il mondo catturando l’interesse di pubblico e critica.
Già vincitore come Miglior Film, Miglior regia, Miglior sceneggiatura e Migliore Attrice al San Sebastian Film Festival, Miglior Film al Trieste Film Festival, Premio della Critica Internazionale FIPRESCI a Toronto, il film di Dea Kulumbegashvili è un atto d’accusa contro la violenza sulle donne che getta uno sguardo sulla condizione femminile e sul ruolo della religione e della femminilità in Georgia.
Con Beginning la regista trasporta lo spettatore all’interno di tableaux vivants dotati di una misteriosa forza magnetica, ispirandosi alla pittura di Hans Holbein e Francis Bacon, al lavoro di Michael Heizer, alle foto di famiglia e ai paesaggi della Georgia, Dea Kulumbegashvili dà forma a un cinema di grande vitalità e tensione, sfida lo spettatore, lo obbliga al dubbio. Cos’è il paradiso? Cos’è l’inferno?, chiede la protagonista ai bambini della comunità religiosa, mentre la stretta della violenza – fisica e psicologica – si fa sempre più opprimente quelle stesse domande le suonano vuote, le risposte lontane.
Beginnig è un esordio che mostra un’identità autoriale già definita – autorevole – con l’urgenza di comunicare il senso di (non) appartenenza che la lega a doppio filo al suo Paese.
Distribuito in pochi cinema selezionati il 25 novembre in occasione della Giornata mondiale contro la violenza sulle donne, Beginning uscirà in Italia a febbraio 2022.
L’estremismo religioso è il MacGuffin che usi per raccontare la storia di una donna comune, prigioniera di un sistema patriarcale che la reprime, la violenta e la incolpa, è completamente isolata, nella sua casa, nella sua comunità, nel suo Paese. È una condizione normale in Georgia? Ha a che fare con la tua esperienza personale?
Essere una donna in Georgia è certamente associato al senso di colpa. Ogni necessità, voglia o desiderio è fonte di colpa. Qui viviamo in una società dove le donne hanno bisogno di un permesso per poter desiderare qualcosa.
In Beginning recita anche tua madre. Com’è stato lavorare con lei? Avete parlato della difficile situazione delle donne in Georgia?
È stata un’esperienza molto emozionante per me lavorare con mia madre. Le ho dato la sceneggiatura, quando l’ha letto sapeva già da dove provenivano la trama e l’idea, i dialoghi e i personaggi. Ha pianto. Non abbiamo mai discusso del suo percorso di vita, ma non abbiamo bisogno di parlare molto. Quando ha letto la sceneggiatura ha capito che so cosa ha passato. È stata un’esperienza di connessione. Mia madre è estremamente orgogliosa di me, perché faccio qualcosa per conto mio, seguendo la mia passione. Ma è la sua lotta silenziosa a essere d’ispirazione per me. Penso che tutto quello che faccio forse dà voce a mia madre e a mia nonna, le due donne che mi hanno cresciuto.
Cosa significa per te essere georgiana oggi?
La Georgia è un paese con una cultura meravigliosa, un paesaggio affascinante e un passato tragico. È un posto turbolento. Sembra che tutti si conoscano qui, non c’è alcun senso della privacy. Con la sua cultura e le sue persone, è una grande fonte di ispirazione, ma il mio rapporto con questo Paese è irrisolto. Non posso né vivere qui e sentirmi a casa né andarmene per sempre. Parto per tornare, è un processo ricorrente. Quando sono qui mi sento soffocare come se non ci fosse abbastanza spazio per stare da sola, per pensare, per riflettere. Più sono vicina a questo Paese, più è doloroso. Ma di certo non riesco a immaginarmi di andarmene per sempre.
Per vedere chiaramente la situazione è necessario partire? Penso anche a un altro regista, Levan Akin (svedese, ma di origini georgiane) che ha parlato dell’omofobia a Tbilisi e del peso delle tradizioni sui giovani georgiani. La tradizione (religione, famiglia, ecc.) è un paraocchi?
La vita è estrema qui – intendo ogni emozione, il senso della cultura e della tradizione. Tutto è portato all’estremo. Sono sicura che non ci sia molto dibattito sull’omofobia o su qualsiasi altro crimine d’odio. Qual è il valore che viene difeso da qualsiasi crimine d’odio? Tutti questi crimini sono i crimini di una mentalità confusa, alimentata da valori contorti e da una comprensione distorta della cultura. Avevo bisogno di partire 15 anni fa e di studiare e vivere all’estero. Anche adesso vivo qui solo part-time. Altrimenti mi sento soffocare dall’impossibilità di un dialogo aperto; con l’odio verso tutto ciò che sembra o si sente diverso. Ma questo è il mio Paese e vorrò sempre fare film qui.
Lagodekhi, dove sei cresciuta, è una piccola città al confine con l’Azerbaigian. Le terre di confine sono le protagoniste, con i loro registi, di alcuni dei film più interessanti girati di recente (oltre a Beginning, penso ad esempio a Tesnota di Kantemir Balagov, ambientato a Nal’čik..). Credi dipenda dalla necessità di dare voce a realtà e storie ancora poco conosciute?
Lagodekhi, dove mi trovo mentre sto scrivendo, è un luogo che considero casa. Ovunque vado, torno sempre qui. È un luogo che mi ha dato la conoscenza della vita. È dove ho imparato, giocando nella foresta con altri bambini, non solo a vedere la bellezza spettacolare della natura, ma a riconoscere che la natura è indifferente a noi umani. Non mi piace idealizzare la natura, anche se non potrei vivere senza queste foreste e le splendide montagne che circondano la città. Probabilmente in questo luogo, che è una terra di confine e lontano dalla capitale della Georgia, gli estremi della natura umana si sono manifestati ancor più vividamente durante la guerra civile. La lontananza dalla grande città crea anche un senso di isolamento, di abbandono. Qui c’era molta violenza durante la mia infanzia. Abbiamo mai riflettuto su come questa violazione ci ha influenzato? Forse questo posto, il confine, mi ha dato un senso di una libertà. La popolazione di questo luogo è composta da molti diversi gruppi etnici e culturali, alcuni inviati qui in esilio durante l’impero russo, altri spediti in questo luogo per costruire una città comunista. Quindi questo posto è un crogiolo di etnie, culture. Non c’è senso di unità qui. Questo in qualche strano modo crea uno spazio per l’individualismo più di quanto non sia possibile nelle città georgiane più centrali.
In Beginnig colpiscono molto le inquadrature del film, con un formato oggi abbastanza insolito, i dialoghi minimali, la luce naturale, e l’ampio spazio lasciato alla natura e agli ambienti. Ci sono fotografi che ti hanno influenzato a livello estetico?
Penso che tutto mi influenzi: cinema, pittura, scultura, fotografia, spazi. Adoro le fotografie di Antoine D’Agata. Anche se il suo lavoro non ha influenzato esteticamente il film sicuramente mi ha influenzato emotivamente. Ricordo che ho osservato queste fotografie mentre lavoravo sul significato da dare agli spazi interni, così come quando ho lavorato con la luce artificiale negli esterni notturni. Tuttavia durante il giorno volevo solo osservare la luce ed essere lì per cogliere il momento.
Il film è stupendo e sembra che Paradžanov e Tsai Ming-liang abbiano dato alla luce un bellissimo bambino. Con un pubblico che ha una soglia di attenzione sempre più bassa, questo cinema è da considerarsi coraggioso e necessario o snob?
Grazie per questo complimento. Ovviamente amo il cinema di Paradžanov. È stata una materia che ho studiato e ammirato sin da quando ho iniziato a interessarmi al cinema. Per quanto riguarda Tsai Ming-liang, sono rimasta profondamente toccata da una delle scene di Stray Dogs perché non avevo mai visto prima una scena in cui sentissi la solitudine, la disperazione e il bisogno per un essere umano di una connessione emotiva e umana, espressa in modo così semplice ma profondo.
In entrambi gli esempi, semplici e belli, il cinema è rappresentato nella sua forma povera. Nel nostro mondo, quando usufruiamo quotidianamente di così tanto materiale audio e video, questo tipo di cinema è un’isola dove possiamo fermarci e vedere cosa c’è di fronte a noi. Ciò che sembra semplice richiede la nostra partecipazione e la nostra totale attenzione. Penso che lo spettatore debba scegliere cosa vuole guardare. Non esiste un cinema snob o necessario, ma solo quello che vogliamo vedere. C’è un pubblico per tutto il cinema. Non ho mai diviso il cinema in segmenti, ma guardo solo ciò che mi tocca e che mi trasmette sentimenti, emozioni e pensieri. Capisco che non ci sia molto spazio al box office per alcuni film, ma questo è un argomento diverso.
Nicolás Jaar ha lavorato alla colonna sonora, creata inserendo suoni sintetici tra suoni naturali e ambientali, quasi in maniera segreta. Come è nata questa collaborazione?
È stata una collaborazione fantastica. Nico è aperto a qualsiasi idea, tanto quanto è fonte infinita di idee e ispirazione. È stato semplice lavorare bene con lui, ciò che è complesso e complicato è riuscire a fare ciò di cui il film ha bisogno. Nico è stato coinvolto molto prima dell’inizio delle riprese, ed è stata una delle pochissime persone ad aver visto i primi take. Il suo rapporto con il cinema è libero e spesso è stato molto utile sentire la sua opinione anche su molti aspetti diversi da quello sonoro. Non giudicava ciò che guardava sullo schermo, ma piuttosto parlava dei suoi sentimenti e del suo legame con l’immagine e con il cinema. In un certo senso, il suo sostegno e le nostre conversazioni mi hanno aiutato a osare, a prendere decisioni più coraggiose nell’editing.
Puoi raccontarci un po’ del finale (dopo l’ultimo gesto tragico del protagonista)? È sorprendente il modo in cui hai scelto di chiudere la storia, con una breve sequenza che trasporta la narrazione dal realismo a un livello molto più allegorico e metafisico.
L’ultima sequenza è stata la prima che ho scritto. Per prima cosa ho scritto la scena finale per Yana. Quella è stata la prima immagine che nella mia mente. Poi in qualche modo, istintivamente, sono passata a un’ultima sequenza. Non aveva molto senso in quel momento perché il film non era ancora stato scritto, tuttavia, mi stavo ponendo questa domanda: “la morte è una liberazione? È una fine o è un inizio?” Mi interessavano le domande sulla possibilità di un riscatto. Non volevo né punire né dare una sorta di redenzione al personaggio del detective. Volevo creare la dimensione metafisica sia per il personaggio che per il film. Volevo creare lo spazio di uno spettatore. Volevo che facessimo le domande e che partecipassimo attivamente a questa scena con la nostra mente, con le nostre emozioni. Ma come si fa al cinema senza creare un discorso intellettuale sullo schermo? Volevo che l’immagine e la sensazione guidassero lo spettatore nella propria interpretazione della conclusione, ma allo stesso tempo quello che si vede sullo schermo è qualcosa di molto concreto, molto chiaro. Certamente non è un “finale aperto”. Mi fido sempre dell’immagine. Mi fido sempre della fotocamera. A volte niente ha senso per iscritto o quando è detto a parole, ma quando guardi ciò che è stato descritto attraverso l’obiettivo della macchina da presa, il cinema è proprio lì.
I tuoi tre film preferiti?
Amo il cinema e guardo moltissimi film, sono una cinefila, questo è sicuro. Su alcuni torno più e più volte: Fanny e Alexander di Bergman, Mirror di Tarkovsky, L’albero degli zoccoli di Olmi… e molti altri.
Cos’è il paradiso per te?
Avrei bisogno di essere un bambino o una persona religiosa per rispondere a questa domanda con una certa onestà. Io amo la vita, con i suoi orrori e la sua bellezza.