Residenza in Viafarini a Milano, approdo in galleria (Ipercubo), mostra appena inaugurata a Casa Sponge nelle Marche e altra esposizione in arrivo all’inizio del prossimo anno. Una fine della stagione coi fiocchi per Greta Pllana, giovane pittrice albanese di stanza nel capoluogo lombardo dopo un trascorso nella marca veneta. L’abbiamo intervistata, andando alla scoperta delle sue origini e della sua terra natia. Attraverso verdi vescica, intrusioni di viola e scivolate di carboncino ondivago, il tutto conciliato nelle sue tele, Greta riporta alla luce la storia di un paese che ha ancora molte ferite da raccontare.
La storia del tuo paese nativo, l’Albania, è il tema principale da te trattato.
L’Albania è un paese che ha vissuto delle grandi ferite e ha sofferto tantissimo. Il comunismo, finito nel ‘91, un anno prima che io nascessi, ha lasciato il paese in una completa chiusura verso il resto dell’Europa. Mia mamma mi raccontava che non sapeva cosa ci potesse essere al di là delle montagne. Si viveva per lavorare e si lavorava per vivere, punto. Non c’era la proprietà privata, non potevi tener animali e chi lo faceva doveva nasconderli in bagno quando lo Stato veniva a controllare.
Io sento la necessità e il bisogno di parlarne perché mi sento Albanese. Ho vissuto lì cinque anni e ricordo ancora i carri armati Italiani che salutavano entrando nella mia città durante la Missione Alba nel ‘97. Uscivo in strada con tutti gli altri bambini, eravamo in periferia e c’era molta povertà. Venendo in Italia da un lato ho perso alcune cose ma dall’altro, grazie alla pittura, le riscopro ogni giorno.
La tua pittura diventa un modo per risolvere i traumi del passato?
Si, assolutamente. Riflette ciò che tu sei e vivi, assorbe tutto quello che ti circonda. Qualsiasi cosa fai la trasporti nella tua quotidianità, che nel mio caso è la pittura. Dipingere, per me, è come risolvere un rebus. Ho bisogno di capire, la mia è un indagine storica e familiare perché parla della mia storia. Ciò che riporto sulle tele viene dai racconti che mi fa la mia famiglia, per me fondamentali, oppure dalle fotografie. Quando guardo le foto mi butto in un passato che non ho vissuto ma che è come se lo avessi vissuto, è ciò che mi appartiene e quindi è importante.
La pittura mi aiuta a capire le mie origini, che cosa sono, chi sono. Vivo tanto questa dualità del sentirmi albanese totalmente, per scelta anche se non ho la cittadinanza, e italiana in quanto vivo qui. Un ambiguità che inizialmente mi faceva soffrire perché non capivo, non ho un’origine ben definita, ma adesso mi dà sicurezza e forza perché posso raccontare qualcos’altro, dare qualcos’altro.
Suggestioni ed immagini trovate, a volte rubate, compongono i tuoi dipinti.
In alcuni casi sono immagini mie e della mia famiglia in altri casi, come per le architetture, sono immagini rubate alla città. Vengo ogni volta affascinata e sorpresa dalle trasformazioni che vedo, mi ricordo com’era il mio villaggio quando sono nata e ora la strada è asfaltata. Il paesaggio urbano influenza il pensiero delle persone e il loro modo di vivere. In Albania questo cambiamento può aiutare a cambiare la mentalità delle persone che è ancora troppo legata al passato, da ricordare ma anche da sorpassare. La pittura come una sorta di rivincita, far vedere ciò che è l’Albania, ciò che siamo e vediamo. Non è mai forzata, non la medito o programmo, è molto istintiva e veloce. Ti sfoga, è gestualità, è istintività.
A questa realtà si aggiungono le suggestioni di Venezia dove ho studiato e sperimentato per la prima volta la pittura. È una città viscerale che si trasporta nei miei quadri tramite una contaminazione dei colori, i verdi vescica, gli ocra, i viola. Derivanti dall’input che ti dà la laguna.
Fino al 30 gennaio sei presente nel territorio delle Marche con la personale “Nella notte galleggiavano i profumi dei fiori”, curata da Luca Zuccala, come è nata questa mostra? Come vedi l’inserimento delle tue opere all’interno di casa Sponge a Pergole (PU), un contesto così particolare?
Il progetto di Pergole nasce da una telefonata in cui Luca mi ha chiamata e chiesto “quante opere hai a Milano?”. Mi ha proposto un esposizione, personale e intima, a casa Sponge. Non sapevo a cosa andavo in contro ma ho accettato sin da subito. Era come se, in qualche modo, i miei lavori potessero trovare la mia dimensione lì.
Mi sono sentita come a casa mia, sono rimasta colpita dal forno, era proprio lo stesso di mia nonna, mi è sembrato assurdo. Un tuffo nel passato, il mio passato. Stare lì due giorni mi ha fatto venire la voglia di tornare in Albania. La casa ha ospitato molto generosamente i miei lavori, mi è sembrato di entrare in un mio quadro, le pareti rosa, gli infissi verdi e i dettagli curati mi hanno fatto sentire totalmente accettata. La casa parlava di quello, di quell’intimità, di quella tradizione, di quel passato quasi perso, malinconico, nostalgico ma caldo e avvolgente.