Il recente saggio di Byung-Chul Han, “La società senza dolore” (Einaudi), pone il lettore faccia a faccia con la sofferenza per permettergli di risvegliarsi dall’apatia sociale in cui è immerso.
Il dolore è vita. È questa la tesi che sta alla base del tagliente saggio di Byung-Chul Han. Secondo il filosofo tedesco-coreano vivere significa anche saper patire, accettando la sofferenza come necessaria controparte della felicità. Ricollegandosi soprattutto alle riflessioni di Friedrich Nietzsche, Ernst Jünger e Martin Heidegger, Han riconosce nel dolore un vincolo che articola le vite delle persone e restituisce il valore della realtà: «Al contrario del piacere, il dolore mette in moto dei processi riflessivi e conferisce allo spirito “la chiarezza dialettica per eccellenza”. Rende lo spirito veggente».
La società attuale non accetta questa definizione ontologica del dolore e ne rifiuta la sua declinazione antropologica. La sofferenza deve essere bandita dalla quotidianità perché è incompatibile con le regole della società liquida, che Han definisce palliativa. Di fronte alla logica del calcolo, al mantra della positività e al culto della performance, infatti, «il dolore viene interpretato come un segno di debolezza, qualcosa da nascondere o da eliminare in nome dell’ottimizzazione». In questo stato di cose,i sentimenti negativi devono essere confinati in un circolo viziosodi sedute psicoterapeutiche, violenze videoludiche, sostanze stupefacenti e shopping compulsivo. L’anestesia permanente deve consentire alle persone di continuare a produrre e consumare senza fermarsi mai, al di là di ogni variabile.
La pandemia, pur non avendo arrestato questa macchina infernale, ne ha rivelato e amplificato le criticità: «Il virus è lo specchio della nostra società». Il Covid ha rappresentato uno shock per la vita delle persone, riportando il dolore al centro delle preoccupazioni collettive. Di fronte alla possibilità di riflessioni profonde e cambiamenti sostanziali, però, la società palliativa ha risposto con la rimozione apparente della sofferenza, per tornare il prima possibile alla presunta normalità di cui si fa portatrice: «Nel nome della sopravvivenza sacrifichiamo volentieri tutto ciò che rende la vita meritevole di essere vissuta». La critica di Han ai nuovi processi biopolitici è radicale, ma anche chi ha idee più moderate può trovare spunti significativi nelle sue argomentazioni. Del resto un autentico dibattito si sviluppa a partire dal dissenso.
Evidentemente oggi anche l’arte non si sottrae al paradigma dominante. Schiacciati tra algoritmi e like, gli artisti sono spinti a imporsi come marchi, conformandosi al mercato per anestetizzare gli spettatori. Jeff Koons è l’emblema di una produzione «amorale, ostentatamente decorativa, del mi piace. L’unica reazione sensata dinanzi alla sua arte è, come ha sottolineato lui stesso, “Wow”». Al contrario per Han, che si rifà alla teoria estetica di Theodor Adorno, il ruolo dell’artista è esattamente l’opposto:
L’arte deve sconcertare, disturbare, inquietare, anche saper far male. È da qualche altra parte. È a casa dell’estraneo. È proprio l’estraneità a caratterizzare l’aura dell’opera d’arte. Il dolore è lo strappo attraverso il quale fa breccia il completamente Altro. È proprio la negatività del completamente Altro a mettere l’arte in condizione di offrire una narrazione antagonistica rispetto all’ordine vigente. La compiacenza, invece, perpetua l’Uguale.
Un’arte che sappia distinguere i propri mezzi dai fini, per svegliare le persone dall’apatia, confrontandosi con il dolore e riscoprendo la bellezza nascosta della vita.