Enrico Caruso (1873-1921) è mito, icona dalla voce immortale, prima celebrity del Secolo Breve, ma anche Storia d’Italia, dell’emigrazione e del suo contributo alla cultura americana. Intelligente e curioso, esplorava tutti i media: incisione discografica, stampa, fotografia e cinema. Svecchiò l’opera lirica con il Verismo, fu l’uomo più fotografato del tempo e attore consumato nel film My Cousin. Artista originale, disegnò caricature, dipinse acquerelli e modellò statuine per gli amici. Fu “l’emigrato che ha avuto successo”, vicino alle comunità italiane in America. Fu la voce incantevole e napoletano di successo a New York.
A cento anni dalla sua scomparsa, due eventi celebrano il grande tenore: l’inaugurazione della Casa Museo “Enrico Caruso”, in via Santi Giovanni e Paolo 7, e la mostra allestita, a poca distanza, nelle sale del MANN, Museo Archeologico Nazionale di Napoli, dal titolo, Enrico Caruso – Da Napoli a New York, fino al 22 aprile 2022.
Partendo dalle origini, dal capoluogo campano, grazie alla sinergia tra Armando Jossa, nelle vesti direttore artistico, Raffaele Reale, presidente dell’Associazione “Casa Museo Enrico Caruso APS”, nonché titolare della storica abitazione, Gaetano Bonelli, direttore del Museo Caruso, oltre al contributo dei discendenti del tenore, dello storico Guido D’Onofrio, del comm. Aldo Mancusi, che ha donato svariati reperti provenienti dall’Enrico Caruso Museum of America di Brooklyn, e della preziosa donazione di dischi e grammofoni del cav. Luciano Pituello, studioso e collezionista “carusiano”,è stata allestita una casa museo incentrata sulla vita del tenore: fotografie, lettere, caricature, dischi, locandine, programmi, un grammofono dei primi anni del ‘900, alcuni cimeli, il suo bastone da passeggio e la biancheria in lino recante l’elegante ricamo delle sue iniziali, sono una delle tante mirabilia visibili al pubblico. E’ un progetto espositivo che proseguirà con la riqualificazione e il restauro dell’edificio, per concludersi il 25 febbraio 2023, in occasione del centocinquantesimo anniversario della nascita.
Dalla natia abitazione del musicista si raggiunge, a distanza di due chilometri, il MANN, Museo Archeologico Nazionale di Napoli, che ospita la mostra curata da Giuliana Muscio, con la consulenza di Simona Frasca, musicologa e docente dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”, che mette a fuoco con uno sguardo nuovo la figura del tenore partenopeo, capace di conservare e innovare le tradizioni dello spettacolo con un impatto significativo sui media statunitensi.
Sono visibili oltre 250 immagini fotografiche, provenienti dal Met, Metropolitan Opera Archive di New York, dalla Caruso Collection presso il “Peabody Institute” (Johns Hopkins) di Baltimora e dal Museo Enrico Caruso di “Villa Bellosguardo” a Lastra a Signa. Oltre al materiale audiovisivo d’epoca e cinegiornali, forniti per l’occasione dagli archivi americani e dal fondo Setti della Fondazione Ansaldo, in esposizione ci sono anche registrazioni audio originali della sua produzione discografica.
Fu il grammofono a procurare a Caruso un pubblico mondiale quando era ancora in Italia: proprio grazie all’ascolto del disco su questo strumento che il Met lo scritturò. Nel 1902 incise a Milano dieci arie con una apparecchiatura sperimentale. La qualità della sua voce trasformò questa tecnologia in industria discografica. Sotto contratto con la Victor Record Company, trasformò il grammofono nel principale mezzo di presentazione dell’opera, portandola fuori dal teatro, pur mantenendone la posizione nella gerarchia culturale. Fu il primo a vendere 1 milione di copie di un disco, Vesti la giubba, e tra il 1904 al 1920 guadagnò con le incisioni 1.825.000 dollari.
La canzone napoletana fu esportata a New York, ma anche prodotta in loco, in un ambiente cosmopolita, in cui i musicisti incontrarono le melodie napoletane mescolandole al jazz nascente, al tango e ad altre tradizioni. Il tenore incise anche canzoni popolari scozzesi come Auld Lang Syne e inglesi For You Alone, Love Is Mine, o in francese, Adorables Touments.
Quando l’11 aprile del 1902 Caruso realizzò a Milano le prime matrici discografiche, la storia del disco fu nella sua fase di avvio. Non passarono neanche quattro anni da quando Fred Gaisberg (1873-1951), inviato dalla Berliner Gramophone americana per “colonizzare” l’Europa, sbarcò in Inghilterra dal piroscafo SS Umbria dando inizio alla mirabolante e travolgente storia dell’etichetta cha ebbe per logo quel cagnolino Nipper che ascoltava La Voce del Padrone, marchio che divenne il simbolo mondiale della nascente avventura del disco fonografico.
Dal 1903 tra il Met e Caruso si avviò un sodalizio che fece del teatro il tempio della lirica, di cui si possono notare una serie di fotografie nell’exihibit. Il musicista guadagnò 2500 dollari a spettacolo, pur avendo ricevuto una proposta da Buenos Aires, in Argentina, di 9000 dollari. Si esibì al Met per 17 stagioni, in 607 rappresentazioni. La comunità italiana attiva a New York annoverava in quegli anni, tra gli altri, Giulio Gatti Casazza (1869-1940) e Arturo Toscanini (1867-1957), oltre a Lina Cavalieri (1875-1944), Rosa Ponselle (1897-1981), i baritoni di scuola napoletana Antonio Scotti (1866-1936) e Pasquale Amato (1878-1942), il direttore del coro Giulio Setti (1869-1938) e la ballerina Rosina Galli (1892-1940). Tra il 1908 e il 1934 Gatti Casazza gestì il Met, facendone il cuore culturale della città. Il risultato di questa presenza italiana a New York culminò con La fanciulla del West, composta da Giacomo Puccini (1858-1924) per Caruso.
Tra il 1890 e il 1915, cinque milioni di italiani emigrarono negli Stati Uniti e altrettanti in America Latina. Il tenore partenopeo frequentò Little Italy a New York, aiutando gli indigenti, rifiutando i ricatti della Mano Nera e tessendo rapporti di amicizia con i fratelli Sisca Marziale (1879-1968) e Alessandro (1875-1940), editori del giornale La follia di New York, difensori dei diritti degli emigrati, dove Caruso si cimentò nella realizzazione di vignette satiriche, visibili in mostra. Inoltre, frequentò il teatro gestito da campani, cantando in duetto con Gugliemo Ricciardi (1871- 1961), fondatore della prima compagnia teatrale professionale italiana e collaborando anche con il sorrentino Cesare Gravina (1858-1954), incontrato precedentemente al Teatro alla Scala di Milano, li volle entrambi sul set del film My Cousin.
Per un immigrato italiano negli Stati Uniti successo e popolarità non erano scontati. A Ellis Island per coloro che provenivano dal meridione d’Italia sul visto di entrata si stampava la lettera S (Southern), in quanto considerati “non caucasici”: i loro diritti non andavano oltre a quelli dei neri. Nel 1906, il New York Evening Telegram scrisse: “Tutti si chiedono ora se il Signor Caruso mangia aglio. Perché se lo fa, tutti pensano che non dovrebbe dare un’altra performance di Tosca al Metropolitan quest’inverno, per non appestare col suo alito le colleghe Emma Eames e Lilian Nordica”.
La spola degli artisti fra Napoli e New York fece da tramite tra diverse culture. Il nonno del regista Francis Ford Coppola (1939), Francesco Pennino (1880-1952), compose sceneggiate (citate dal nipote nel film Il Padrino 2) che circolarono anche in Italia. Nacque una lingua ibrida visibile nelle macchiette di Farfariello (Eduardo Migliaccio, 1880-1946), nelle canzoni di Louis Prima (1910-1978), di Dean Martin (1917-1995), e nelle interpretazioni cinematografiche dell’attore Joe Pesci (1943). La sceneggiata riemerse, nobilitata, nei film di Martin Scorsese (1942). Con la canzone napoletana O’ sole mio, Caruso sintezzò Napoli con l’italianità, la musica divenne il più grande strumento di affermazione sociale per l’emigrazione italiana.
Nel 1918 il tenore firmò un contratto di 200 mila dollari con il produttore Jesse Lasky (1880-1958) per due film, My Cousin e The Splendid Romance (ora perduto). Le riprese di My Cousin vennero girate a Little Italy. Subito dopo le nozze, Caruso portò la moglie Dorothy Park Benjamin (1893-1955) ad una visione privata del film. Incongruenze nelle trame pubblicate e tre foto di scena con baffi disegnati a china rivelarono qualche rifacimento. Le recensioni furono positive e gli riconobbero le doti di grande attore, ma stranamente il film sparì dalle sale. Secondo alcune fonti fu Lasky a bloccarlo, insoddisfatto della resa commerciale. L’altra ipotesi fu di un intervento della moglie del tenore, della aristocratica Dorothy che non apprezzò Caruso nei panni del povero emigrato.
Diventato ormai una icona, comparve su tutti i giornali dell’epoca, con i costumi di scena o nelle strisce del fumetto Arcimbaldo e Petronilla, divenendo ben presto il testimonial di diversi prodotti, come le sigarette egiziane, che fumava in grande quantità. Eccezionalmente, la stampa ne descrisse anche la sfera privata, con la moglie Dorothy e la figlia Gloria, e con gli altri figli, Enrico Jr e Rodolfo, avuti dalla relazione con Ada Giachetti (1874-1946).
Proseguendo con il percorso espositivo, una particolare attenzione è rivolta alle fotografie che lo immortalano durante il periodo della Prima Guerra Mondiale. Il conflitto impose agli emigrati la scelta di combattere per l’Italia o essere dichiarati disertori. Dopo l’entrata nel conflitto degli Stati Uniti, Caruso partecipò a numerosi concerti di beneficenza per istituzioni italiane e americane, si attivò nella propaganda bellica, fece cospicue donazioni e si impegnò nella raccolta fondi e nella vendita di buoni di guerra. Cantò e incise Over There, compose Liberty Forever e in un evento benefico davanti a centomila persone eseguì Star Spangled Banner.
Le rappresentazioni operistiche si trasformarono in opportunità di propaganda patriottica. L’11 novembre 1918, nell’Opening Night di Samson and Dalila, si festeggiò la vittoria in guerra. Amore per il proprio paese e per la gente, per il glorioso passato e per le istituzioni, erano i sentimenti che caratterizzarono una intera comunità. Dalla compagnia al coro, dagli organizzatori agli esecutori, ogni membro sventolò una bandiera.
A chiusura dell’exihibit è allestita una sala in cui è possibile ascoltare le performance musicali di Caruso, provenienti dal fondo di documenti sonori conservati nell’archivio dell’Istituto Centrale per i Beni Sonori ed Audiovisivi- I.C.B.S.A. (l’erede della Discoteca di Stato), che annovera oltre trecento testimonianze su vari supporti: dai dischi a 78 giri, ai cilindri di cera, dai Long Playing ai Compact Disc, dai 45 giri alle musicasette. I documenti sonori scelti e presenti in mostra offrono una proposta di recupero “filologico” della voce e del timbro del grande tenore, tramite un delicato e complesso intervento sulla velocità di rotazione del supporto discografico originale. Non è, dunque, un ascolto “edulcorato”, con i suoi “arrotondati” per l’uditore moderno: c’è la crudezza, la brillantezza ed il fascino del disco in gommalacca di cento anni fa.