Le Sale Chiablese dei Musei Reali di Torino ospitano la mostra Vivian Maier. Inedita. Una delle massime esponenti della street photography, troppo a lungo dimenticata. L’esposizione è sostenuta da Women In Motion, un progetto ideato da Kering per valorizzare il talento delle donne in campo artistico e culturale. Dal 9 febbraio al 26 giugno 2022.
É vero, la dicotomia arte-economia è una faccenda che inizia a impolverarsi. Al giorno d’oggi ci siamo accorti tutti che l’arte, per quanto nutra lo spirito, non sazia di certo il corpo. D’altra parte il mondo del commercio, per quanto si accompagni spesso a dinamiche di potere e guadagno tutt’altro che poetiche, è un supporto fondamentale per le arti. La Chiesa è stata il grande mecenate del Rinascimento come in seguito lo sono state le famiglie aristocratiche. In epoca moderna a finanziare la pratica artistica – almeno in molti casi – è il mercato stesso. Quasi democratico, no? Democratico, non meritocratico. Già Van Gogh – che nelle lettere al fratello mercante d’arte si diceva pronto a dipingere qualsiasi cosa pur di vendere un quadro – non ha raccolto in vita nemmeno una minima parte di quello che ha lasciato ai posteri. Dunque non possiamo certo storcere il naso se un artista cerca di conciliare ricerca e guadagno, proprio nell’ottica di perpetrare al meglio la sua pratica.
Tutto giusto. Dobbiamo però ammettere, con altrettanto candore, che quando ci troviamo davanti a un’arte disinteressata, nata e sviluppatasi solo secondo esigenza dello spirito, be’, ne rimaniamo affascinati. Certamente per la purezza, per la spontaneità. Ma non è affatto detto che queste si perdano con il “guadagno”. Piuttosto credo che quel che ci attrae più di tutto sia la costanza, la dedizione, la passione e, ultimo ma non meno importante, il senso di incompiutezza.
Tutto questo lo si respira nelle 250 opere – distribuite in 8 sezioni – della mostra Vivian Maier. Inedita. 40 anni passati a fare la tata. E nel mezzo migliaia di scatti realizzati per lei sola. Come metodo espressivo, come soluzione di fuga, come hobby, come segreta ragione di vita. Questa è stata l’esistenza di Maier. Per ridurla all’osso ovviamente. Un primo dato impossibile da trascurare nell’analizzare la sua opere e che getta un alone di mistero, un fascino commovente, quasi drammatico, su un’artista che forse non ha mai saputo di esserlo.
Difatti, se è pur vero l’uomo trova intima soddisfazione in se stesso, Sartre (ma non solo) ci indica in modo chiaro che gli altri sono un metro indispensabile per conoscerci, per definirci, per collocarci nel mondo. Il fatto che Vivian Maier (1926-2009) non abbia avuto tale riconoscimento è per certi versi straziante e indiscutibilmente poetico. La immaginiamo osservare, non senza malinconia, l’attenzione che dal 2007 – anno della sua riscoperta ad opera del collezionista John Maloof, che dopo aver acquistato all’asta per pochi dollari più di 30,000 negativi realizzati dall’allora sconosciuta fotografa ha iniziato a promuoverne l’opera – il mondo dell’arte ha iniziato a concederle.
Del resto il corpus di opere è così ampio ed eterogeneo che ancora alcune sue parti rimangono avvolte nel mistero. Inedite, come afferma il titolo della mostra. In questo caso a non essere mai state esposte sono le fotografie che Maier ha scattato il 21 luglio 1959 durante il suo viaggio a Torino. Le mura romane, il fronte del Duomo con la Cappella della Sindone e il campanile, il mercato di Porta Palazzo e una strada non ancora individuata. Un nucleo prezioso che evidenzia l’attenzione della fotografa per le architetture, per la voce della strada, per i passanti che diventano inconsapevoli protagonisti di un improvvisato teatro urbano.
La poetica di Maier del resto affonda, in realtà precedendolo, nel linguaggio street che ancora oggi rimane molto popolare e facilmente apprezzabile da un largo pubblico. Ciò che impreziosisce l’occhio di Maier è l’intima necessità di scoprirsi, che guida lo sguardo e l’obiettivo. Nei suoi scatti non si percepisce solo il desiderio di bloccare la contemporaneità, di scovare prospettive inedite e delineare composizioni suggestive. Per Vivian Maier immortalare il mondo significava scavare in se stessa.
Per questa ragione, anche in questa mostra, il percorso parte dall’Autoritratto. Non troviamo veri e propri selfie, quanto più superfici specchianti – vetrine, specchi, finestre – utili a restituire il volto insieme allo spazio circostante. Il suo sguardo pare sempre fanciullesco, perso in un’avventura giocosa dai confini illimitati. La città come una giungla dove perdersi e ritrovarsi, in forme sempre nuove. Come quella della sua ombra, allungata e distorta sulle strade di New York prima (1951-1956) e Chicago poi (1956-2009). Nei respiri caotici della metropoli andava cercando il residuo della sua persona, quel rovescio dell’esistenza che attrae lo spirito.
Difatti, anche quando si stacca da sé, la fotografa ricerca “quello che solitamente non si nota, quello che non si osserva, quello che non ha importanza: quello che succede quando non succede nulla, se non lo scorrere del tempo, delle persone, delle auto e delle nuvole” (Georges Perec, Tentativo di esaurimento di un luogo parigino, 1975). Abita il tempo della città, irriducibile intrecciarsi di storie e situazioni, in modo anomalo, muta la realtà in apparenza rivelandone l’aspetto sovrannaturale. Il desiderio di scovare il fantastico nell’ordinario era per lei, probabilmente, quasi una necessità.
Un’occasione di riscatto da una vita lineare, forse ingabbiata. Per questo anche quando rivolge l’obiettivo verso gli altri – in mostra le sezioni Ritratti, Gesti, Infanzia – cerca sempre gli invisibili, i dimenticati, coloro che dai margini del mondo guardano il sogno americano dispiegarsi. I loro volti provati parlano di povertà, lavori estenuanti, miseria e destini oscuri. Nella terra delle speranze nessuno ha fiducia in loro. Tranne Maier, che avvicina, dialoga con loro, li porta sulla soglia del loro vero io e poi click: lo immortala. Coglie il momento in cui si tradiscono e rivelano l’irrivelabile. Così facendo li eleva, concede loro importanza, esprime in immagine la loro dimensione esistenziale. Al contempo, nel dialogo con l’alterità la stessa fotografa si riconosce e guadagna consapevolezza di sé.
É così che nei dettagli dell’esistenza – due mani che si sfiorano, un vestito a pois, un’occhiata indagatrice, un tacco signorile – Maier coglie l’universalità della condizione umana. Nelle sue miserie e nei grandi slanci di entusiasmo. Nella stasi di un meriggio assolato o nel caos dell’andirivieni cittadino. Cattura scene dagli attributi narrativi, ritagli di coincidenze, di allineamenti unici, istanti dove la realtà si dimentica di sé e lascia spazio all’inusuale.
Tale propensione al racconto non poteva che precipitare nel cinema. All’inizio degli anni ’60 Vivian Maier inizia a giocare con il movimento, creando sequenze cinetiche, come se cercasse di trasportare le specificità del linguaggio cinematografico in quello della fotografia, creando delle vere e proprie sequenze di film. Come naturale conseguenza, inizia a girare con una cinepresa Super 8, documentando tutto quello che passava davanti ai suoi occhi, in modo frontale, senza artifici né montaggi. Un reportage realista ma poetico, di cui alcuni esempi sono raccolti nella sezione Cinetismo. Tra le sue sperimentazioni aggiungiamo infine quella sul Colore. Una parte della mostra testimonia l’esplosioni si suoni e vitalità che la cromia ha apportato al fotografia di Maier. Meno estatiche e più sgargianti, questi scatti di Maier lasciano trasparire l’inesausta propensione dell’artista ad annettere quanti più stimoli possibili all’interno della sua opera.
Che tale impresa artistica sia stata compiuta nel silenzio del proprio spirito è incredibile. Come incredibili è stato accorgersi, a posteriori, di quanti aspetti avanguardistici fossero già presenti nei suoi scatti giovanili. Forse anche questo partecipa al senso di malinconia generale. Non possiamo affermare che Maier abbia influenzato i fotografi a lei successivi, perché non la conoscevano. D’altra parte il suo linguaggio è indiscutibilmente quello della street photography. Vivian Maier è quindi a tutti gli effetti un’artista che ha vissuto nelle pieghe della storia, sviluppando nel suo mondo parallelo le stesse soluzioni che sarebbero nate in seguito.
Pare quindi abitare, nell’immaginario artistico, un universo a parte, allo stesso tempo integrabile ma difatti sciolto dal resto della storiografia. Porta con sé un senso di incompiutezza romanzesca. É stata un outsider di talento, ma anche un talento che si è portato volontariamente ai margini. Dunque, dopo tanto rammarico, è consolatorio osservare come il tempo abbia ricondotto anche la sua storia laddove lei si è sempre rivolta. Lì dove stava lo strano, l’inaspettato, il sorprendente.