Un libro d’artista sui generis, una sorta di autoritratto per immagini, un autoritratto travestito disposto in un labirinto di specchi, senza uscite di sicurezza dove all’improvviso è saltata la luce. Un trittico di definizioni raccolte dai due autori-curatori, Luca Fiore e Giovanni Agosti, per balenare qualche scintilla di quella luce “saltata” fuori dal sipario che satura la copertina del nuovo libro di Giovanni Frangi: L’INTERVISTA, edito da Magonza. Il pittore milanese classe 1959, dal 2014 al 2018, in diverse puntate è stato al centro di un lungo e proficuo dialogo-intervista con Luca Fiore. Il materiale raccolto è stato poi rimontato, tra il 2019 e il 2020, con la colta collaborazione di Giovanni Agosti. Risultato? Un ritratto fuori del comune di un artista, quando il futuro si fa avaro e l’altra metà della propria strada si vorrebbe tutta impegnata dalle scelte della maturità. In mezzo ci sono la famiglia, gli amori, le città, gli amici, gli animali, i maestri -a partire da Giovanni Testori- tra vorticosi salti di piani, dove la nostalgia non occupa mai il centro della scena e dove le risate si palesano più o meno sottilmente dietro ogni angolo di carta, di foglio, di tela. Quest’inchiesta, desultoria e appassionata, alla ricerca delle proprie radici espressive, è accompagnata da un apparato fotografico inconsueto, che trasforma il volume in un vero e proprio libro d’artista sui generis.
Ne abbiamo parlato con Luca Fiore.
Ho saputo che con Giovanni Frangi poco prima della pandemia avevi organizzato una mostra durante il Dante Fest allo Yermilov Centre di Kharkiv. Ci puoi raccontare quell’esperienza oggi che la città è devastata dalla guerra?
Nel 2017, ero stato tra i curatori di un progetto di Casa Testori al Meeting di Rimini, che si intitolava “Il passaggio di Enea. Artisti di oggi a tu per tu con il passato”. Avevamo portato opere di Andy Warhol, Michelangelo Antonioni, Emilio Isgrò, Alberto Garutti, Giovanni Frangi, Adrian Paci, Wim Wenders, Andrea Mastrovito, Gianni Dessì e Julia Krahn. Piacque molto a un mio amico poeta Bielorusso, Dmitri Strotsev, che mi invitò l’anno successivo a parlare della mostra a Minsk. Elena Mazzola, direttrice del Centro di cultura europea “Dante” di Kharkiv, ha poi insistito perché portassi la mostra nella città ucraina in occasione del Dantefest 2019, una manifestazione socioculturale che stava organizzando. Abbiamo adattato il progetto al contesto ucraino, coinvolgendo Borys Filonenko, quest’anno curatore del Padiglione ucraino alla Biennale. Ad alcuni artisti della mostra di Rimini (Antonioni, Isgrò, Paci, Krahn e Frangi) si aggiunsero personalità dell’arte locale tra cui il collettivo Open Group, che ha rappresentato l’Ucraina a Venezia nel 2019, e Pavlo Makov, che sarà alla Biennale quest’anno e che in questi giorni sta tentando di uscire dal Paese in guerra. Se in Italia un progetto del genere sarebbe considerato, tutto sommato, nella norma, a Kharkiv il rapporto con il passato, e in particolare il passato recente, era sentito come una ferita aperta.
Da che cosa l’hai capito?
Avevo scritto un testo di introduzione al catalogo, che è stato pubblicato in ucraino e inglese, nel quale avevo inserito questa frase: “Il visitatore ucraino avrà una possibilità in più di confrontarsi con una tradizione lontana dalla propria, avvicinando un mondo, quello dell’arte dell’Europa occidentale che, forse, non gli è così familiare”. Filonenko mi ha rimandato indietro il testo scrivendomi: “Per il lettore ucraino questa affermazione è incomprensibile e, in secondo luogo, offensiva. Il nostro pubblico non solo conosce bene la tradizione europea, ma si considera come parte di essa. Questo sentimento è diventato particolarmente acuto negli ultimi cinque anni, dopo la Rivoluzione della Dignità del 2014, e tutto il settore sociale e culturale lavora per sottolineare la posizione dell’Ucraina e della cultura ucraina come parte del patrimonio europeo”. Ho chiesto scusa e ho modificato il mio testo. Oggi vedere lo Yermilov Centre trasformato in un rifugio antiaereo è davvero doloroso.
L’INTERVISTA. Perché ti è venuta l’idea di cominciare questo libro? La scintilla e le motivazioni per iniziarlo a scrivere.
Ho conosciuto Giovanni Frangi quando avevo 20 anni, me l’ha presentato lo scrittore Luca Doninelli. Gli sono stato subito simpatico e da allora frequento regolarmente il suo studio e le sue mostre. Siamo diventati amici. Ricordo che la prima domanda gliel’ho fatta quando sono andato a vedere “Il richiamo della foresta”, la mostra alle Stelline nel 1999: “Perché, degli alberi, dipingi solo i tronchi?”. Mi ha risposto: “Perché i rami sono più difficili da fare”. Mi parve una bella risposta. Sincera. Negli anni successivi gli ho chiesto se volesse fare una serie di interviste, ma trovava sempre il modo per cambiare discorso e non rispondermi. Poi, nel 2014, si decise a mettere online il proprio sito internet, che presentava le sue mostre più importanti. Scrissi un post sul mio blog (si chiamava “No Name”, sottotitolo: “Appunti provvisori su questioni marginali. Astenersi perditempo”) in cui coglievo l’occasione del nuovo sito per un excursus nella sua opera dagli inizi fino ad allora. Mi chiamò e disse: “Vieni che iniziamo con le interviste”.
Avevi dei riferimenti nel passato?
Direi Conversazioni con Testori di Luca Doninelli, On the Way to Work di Gordon Burn e Damien Hirst (tradotto in italiano come Manuale per giovani artisti) e le conversazioni tra Bacon e Syvester. Erano riferimenti che avevo in testa, ma non sono andato a rileggerli, perché non volevo scimmiottare nessuno. Tengo molto al mio senso del ridicolo.
Che ritratto emerge di Frangi? Quali i riverberi “inediti” che vengono fuori sulla sua figura, pittura, vita…
È un uomo colto, di tante letture. Ogni volta che vado da lui mi appunto mentalmente il titolo di un libro o un articolo che mi sono perso. Nel libro descrive il suo modo di lavorare, sia dal punto di vista tecnico (fa nomi di materiali, marche di colori ad olio, cita i negozi da cui si rifornisce), sia dal punto di vista della concezione del lavoro. Penso possa essere utile ai giovani artisti. Poi si parla di cinema, di calcio, di letteratura. Ho riguardato l’indice dei nomi ed è abbastanza impressionante. Stupisce poi la sua trama di rapporti, che vanno dall’artista, al gallerista, allo scrittore eppure Frangi ha amicizie sincere con il corniciaio, la commessa del negozio di tele, il ragazzo appena uscito dall’Accademia. Indimenticabile l’aneddoto dell’apparizione fuggitiva di Schifano in una galleria milanese. Divertente il racconto della sua visita con Giovanni Agosti da Giuseppe Panza per proporgli il progetto di Nobu at Elba. Intrigante la vicenda di come è nata l’opera site specific per il salotto di una villa a Dauntsey Park, dell’Ovest dell’Inghilterra. E forse non sono molti a sapere che Frangi ha realizzato le decorazioni per una chiesa nella periferia milanese. È un libro da leggere, ma anche da guardare. Ci sono oltre 130 immagini scelte da lui: c’è la foto del suo cane Telma, ma anche le sue opere preferite di Bacon, Schifano, Burri, ma poi Tiziano, Bellini, Serodine, Morlotti… Quelle che mi commuovono di più sono Varlin a letto e Annette al funerale del marito Alberto Giacometti. È anche un po’ un autoritratto per immagini.
Massimo Recalcati ha sottolineato nella sua recensione su Repubblica l’aspetto di continuità col mezzo pittorico, tu cosa ne pensi?
Non posso che condividere il giudizio sul valore dell’artista. Ma trovo che Recalcati resti arroccato sulla difesa della pittura-pittura che, a mio parere, non ha più molto senso. La pittura sa difendersi bene da sola, se è buona pittura. Non è un genere in estinzione, soprattutto se sa accorgersi di che cosa sta accadendo attorno a sé. Frangi questo mi sembra l’abbia capito bene.
Chiudiamo idealmente il sipario del libro con una considerazione riguardo alla situazione attuale dell’arte italiana. Come la vedi?
L’arte italiana non esiste in quanto tale, è inutile parlare in astratto. Però esistono gli artisti italiani e ognuno è una storia a sé. Esistono quelli vivi, che comunicano vitalità e quelli che o hanno perso smalto o che girano a vuoto. Chi perde tempo a lamentarsi, non si accorge che gli stimoli per fare grande arte continuano ad arrivarci: sono quelli che vengono dalla vita. Chi se ne frega se il mercato è in crisi o l’Italia troppo provinciale. Gli artisti tra le due pesti (quella di San Carlo e quella del Manzoni), che Testori chiama “i pestanti”, non si sono fermati davanti alle difficoltà e ci hanno lasciato capolavori che ancora oggi sprigionano energia.