Belfast, il film semi-biografico di Kenneth Branagh, l’Irlanda del Nord, l’infanzia, la strada verso il futuro
Con Belfast, dopo una serie di film brutti ma a loro modo fortunati (Thor, Cenerentola, Assassinio sull’Orient Express – parentesi a parte meriterebbe il disastro totale Artemis Fowl ) Kenneth Branagh torna a fare “quello serio”, e non con un nuovo adattamento del suo amato Shakespeare (Hamlet, Pene d’amor perdute, As You Like It, Il flauto magico – con i quali, evidentemente, ci aveva ingannato), ma giocandosi la carta del “semi-autobiografico”.
Belfast, fresco della vittoria delll’Oscar per la migliore sceneggiatura originale (il film era nominato in sette categorie, comprese miglior film, miglior regista e migliori attori non protagonisti), racconta degli anni del conflitto nordirlandese attraverso gli occhi di un bambino. 1969, da un giorno all’altro le strade in cui il piccolo protagonista (l’avatar del regista) giocava a sconfiggere i draghi armato di una spada di legno diventano avamposti di guerriglia urbana, i protestanti vogliono cacciare i cattolici, il lavoro scarseggia, il padre deve assentarsi sempre più spesso per poter lavorare come carpentiere in Inghilterra. La crisi è totale. Mentre la situazione si fa sempre più tesa, una scelta incombe sulla sua famiglia: partire o restare?
C’è molta attualità (fors’anche inconsapevole) in questo film, ma nel risultato – nonostante gli sforzi del regista che cerca di essere serio, divertente, commovente, quasi spielgberiano, a ogni costo – sembra essere una copia sbiadita di Roma di Alfonso Cuarón.
Belfast si regge sulle interpretazione di un cast che riunisce alcuni degli assi della serialità inglese, Caitríona Balfe (Outlander), Jamie Dornan (The Fall), Colin Morgan (Merlin, The Fall), con loro un’icona del cinema e del teatro come Judi Dench (Lady Henderson presenta, Philomena). Non bastano i loro volti a dare anima a questo racconto, sincero nelle intenzioni del regista, ma senza respiro. Un racconto didascalico in cui i protagonisti finiscono per essere strumentali alla narrazione storica, esempi vuoti per un affresco superficiale.
Branagh non riesce laddove Cuarón aveva vinto la sua scommessa, raccontare la storia che vive attraverso la vita delle persone, ignare del loro ruolo da protagonista. Laddove Roma è un film storico, Belfast è invece, più semplicemente, un film di ambientazione storica.
Branagh ci prova fino alla fine, ma non riesce, nonostante il coinvolgimento personale, ad andare oltre la semplice cartolina, al bugiardo di sé stesso (il teatro popolare, i fumetti – il suo io bambino che legge Thor, prefigurazione del suo io adulto che dirige l’omonimo film Marvel).
Belfast è un’illustrazione in cui il regista usa tutti i trucchi a sua disposizione per commuovere lo spettatore, la fascinazione delle immagini alla Nuovo Cinema Paradiso, la tenerezza per i nonni saggi, la malinconia per un mondo in bianco e nero, la riflessione sul significato di casa e appartenenza, ma tutto si perde in un’idea di cinema con sentimenti pilotati, addizionati, senza slanci e senza calore.