Si chiama Semi la prima monografica italiana di Flora Deborah. L’arte, con l’aiuto del cioccolato, mette in risalto la sua capacità di creare un linguaggio universale. Promossa da CRAMUM, la mostra è visitabile al Gaggenau DesignElementi di Roma dal 9 maggio al 31 ottobre 2022.
Dio non ha distrutto la Torre di Babele perché tramite essa l’uomo si stava avvicinando troppo a lui. O meglio, è così, ma non per le ragioni cui siamo abituati a pensare. L’altezza spropositata che stava raggiungendo, per esempio, non è una di queste. L’aspetto fondamentale era che l’uomo, grazie alla miscela di linguaggi che da ogni parte della Terra confluivano alla Torre, stava riuscendo a scoprire il significato del mondo. Tutte le lingue, insieme, possono giungere a Dio. Questo perché il linguaggio, prima di ogni altra cosa, è il più alto strumento di conoscenza a nostra disposizione.
L’artista franco-israeliana Flora Deborah, nella sua prima monografica in Italia, sta cercando di ripetere un’operazione simile. Da una videoinstallazione in cui scava e assembla la terra del kibbutz in cui i genitori si sono incontrati, passando per i calchi della propria lingua e di quelle dei membri della sua famiglia, fino ad arrivare ai piatti e le piastrelle più recenti in cui personaggi onirici si passano delle coppe, “Flora Deborah” spiega il curatore Sabino Maria Frassà “riflette su come non siano (solo) i luoghi a determinare chi siamo, bensì il linguaggio che impieghiamo per parlare e pensare. Può il lessico di ciascuno di noi penetrare ed essere seme e frutto dei linguaggi di chi ci vive intorno, e quali sono i confini di questo lessico famigliare?“
E proprio nella parola semi, e nel carico di prospettive che essa porta con sé, si concentra il fulcro del progetto espositivo. Il quale non ha caso è iniziato con una performance chiamata SEMI – una pietra per una lingua. Per l’occasione – che si protrae fino al termine della mostra, ad ottobre – ogni visitatore che porterà con sé una pietra da casa per donarla all’artista riceverà in cambio la possibilità di intraprendere un viaggio fatto di terra, racconti, opere in ceramica o in cioccolato (realizzate dall’artista e dallo chef Aleandro Polenti), cibo e riti scaramantici pronunciati in una misteriosa e affascinante lingua in via d’estinzione: il giudaico spagnolo, utilizzato dalla nonna dell’artista e protagonista anche di una installazione video.
Aspetto performativo intimamente connesso alle opere “finite”, e che da esso sembra tutt’ora emergere. Prima di tutto perché realizzate in un periodo difficile per Flora Deborah, costretta a convivere con il morbo di Lyme; e quindi portata ad annettere la dimensione corporea, fisica, all’interno della sua opera. In secondo luogo perché le opere portano ancora i segni visibili del processo che le ha realizzate. Non ci sono correzioni, cancellature od occultamenti. Tutti le imprecisioni e i ripensamenti sono ben visibili, testimoniano un percorso fondamentale per la creazione dell’opera. Una metafora estendibile all’esistenza e alla formazione delle nostre identità. Del resto non ci affanniamo ogni giorno alla ricerca di una piena consapevolezza di noi? A volte sbagliando, ma sempre riprendendo le fila del nostro cammino
In quest’ottica Flora Deborah propone una sorta di idioma universale, un esperanto composto da opere d’arte, con il loro aspetto concreto (la materia) e ideale (la bellezza). Una sintesi unica delle vette conoscitive che il pensiero e l’animo umano sono in grado di raggiungere. Anche Dio è raggiungibile? Non è dato sapere. Per Flora Deborah è importante piantare i semi, innescare uno scambio e stimolare la condivisione.
Non è un caso infatti che i visitatori siano chiamati a portare una pietra. Non è solo un espediente narrativo che riconduce alla Torre di Babele e agli uomini che l’hanno costruita, i quali dunque per mezzo della loro fatica, e della condivisione della fatica, stavano impensierendo Dio, ma una chiamata all’azione diretta, grazie al quale tutti partecipano all’opera performativa.
E cosa hanno ricevuto in cambio gli uomini che hanno eretto la Torre? Una lingua universale. Cosa hanno ricevuto invece i visitatori che hanno partecipato alla performance nel giorno dell’apertura? La lingua dell’artista. Il suo calco in cioccolato, per la precisione. Realizzato dallo chef Aleandro Polenti.
Un gesto che solo apparentemente chiude la rete di simbologie e implicazioni che la mostra solleva. Difatti, come il linguaggio si evolve, anche gli stimoli e la conformazione dell’esposizione continueranno a modificarsi.
“Nessuno di noi” conclude Frassà “sa come queste pietre verranno impiegate dall’artista. Come nella cultura ebraica queste pietre sono il simbolo di rispetto e pietas di fronte al passato e all’esistenza di un’altra persona. Dopo aver visitato la mostra non conosceremo quindi il finale della storia: incuriositi, stupiti e forse un po’ malinconici per la fine del sogno ad occhi aperti che abbiamo vissuto tutti noi spettatori-attori avremo la consapevolezza di esser parte di qualcosa di grande, della vita di un’altra persona“.