Alle Terme di Diocleziano il Museo Nazionale Romano presenta una mostra fotografica di Fabio Barile e Domingo Milella tra paesaggio archeologico e orizzonte geologico
Nella monumentale enciclopedia I portatori del tempo, laddove l’arte contemporanea è letta sub specie temporis, Achille Bonito Oliva scrive: “la forma è il punto focale dell’arte, detiene la centralità del linguaggio. Produce un varco tra la serenità della comunicazione e la turbolenza del gesto artistico, in maniera da favorire un’apparizione”. Il Museo Nazionale Romano – Terme di Diocleziano presenta Le forme del tempo. Una mostra fotografica di Fabio Barile e Domingo Milella che vede i due artigiani della fotografia misurarsi in un confronto scientifico e filosofico tra paesaggio archeologico e orizzonte geologico; il cui frutto è quello di un’epifania del visibile.
“Si tratta di un progetto nato tre anni fa – spiega il curatore, Alessandro Dandini de Sylva – il primo dialogo per immagini tra Fabio e Domingo si è svolto al Centro Arti Visive Pescheria di Pesaro, in un mercato dell’Ottocento. Il secondo, all’antica sinagoga della stessa città. Luoghi caratterizzati da infinite stratificazioni. Qui la terza tappa, alla ricerca di un legame con le Grandi Aule delle terme romane. Abbiamo prediletto luoghi densi di significato, sfuggendo alla logica ordinaria del white cube”. Fabio Barile chiarisce l’origine del titolo della mostra, dal saggio di Kubler The shape of time (1972): “La pluralità scolpisce un’idea mentale e fisica del tempo molto precisa: esso non è uniforme e la relatività lo mette in chiaro”.
Il fascino dell’esposizione, fruibile fino al 31 luglio, scaturisce dalla diversità di sguardo dei due fotografi: mentre Barile lavora sulla geologia, individuando con curiosità scientifica tracce naturali nei paesaggi in evoluzione, Domingo vi rintraccia i più antichi interventi dell’uomo con il piglio umanista dell’archeologo. Fabio racconta dei suoi esperimenti reali o inventati: “quando siamo vicini ad un buco nero il tempo passa molto più lentamente a causa della gravità. La natura è tanto complicata che per quanto proviamo a leggerla cadiamo sempre nel fallimento”. Domingo ragiona sul divenire: “Tutti i pezzi in mostra hanno un rapporto con noi, con il dunque del mondo, il fluire del tempo. L’archeologia non è qualcosa di finito”.
Tra geologia e archeologia
“Il direttore del Museo, Stéphane Verger, ci ha permesso di entrare nei magazzini per scegliere insieme tre reperti che colloquiassero con le fotografie”, aggiunge Dandini. Teste marmoree risalenti al I e II secolo d. C., non perfettamente conservate e per questo adatte a far emergere l’ambiguità voluta tra geologia e archeologia. “Ci avete fatto riscoprire alcuni reperti come la testa di Diomede che, divisa nel volto tra scultura ben delineata e roccia informe, appare una perfetta opera di arte contemporanea. In assonanza tra due forme di bellezza, due forme del tempo” ha affermato Verger, la cui idea è quella di rendere i depositi visitabili.
Il filone del paesaggio nelle fotografie è soltanto un punto di partenza degli artisti per portare il contemplatore nella condizione estatica di recepire nuove informazioni sul mondo. Domingo e Barile, dioscuri della fotografia, trovano spesso punti di incontro. Se un arco di roccia calcarea o curiose strutture minerali regalano suggestioni divine e magico-rituali, antiche iscrizioni ittite rivelano di fiumi nascosti. La natura si è evoluta in cultura e il corso si può sempre invertire, prendendo forme diverse nel corso dei secoli.
Un’archeologia tutta proiettata verso il futuro
Riflessioni che richiamano alla memoria Le pietre volanti, quel libro del ‘92 nel quale Luigi Malerba romanzò il profilo di Fabrizio Clerici, uno dei pittori italiani più controversi del Novecento che – tra inquietudini, coincidenze e ritorni – si trova a fare i conti con le pietre che dipinge e che scava in siti d’Egitto, le cui forme casuali rispondono ai suoi dubbi esistenziali, nel clima di un’archeologia tutta proiettata verso il futuro.
In una dialettica tra antico e presente, metamorfosi del mondo e intervento umano, sotto le altissime volte delle aule romane e l’occhio di pietra dei reperti, Barile e Domingo operano per aprire varchi, spostando la vista verso una curvatura rivelatrice: non esiste una forma, ma una coralità di forme, in movimento costante.
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