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Il mito di New York per l’arte contemporanea

Pio Monti e Josef Albers. Fotografia di Giancarlo Politi. *
Pio Monti e Josef Albers. Fotografia di Giancarlo Politi.
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Un nuovo appuntamento con Amarcord la rubrica di Incontri, Ricordi, Euforie, Melanconie di Giancarlo Politi

Se ripenso al mio primo viaggio a New York mi scappa da ridere. Lo desideravo da sempre, forse da ragazzino, quando mio padre, non so come, mi regalò una giacca di pelle (o similpelle?) come quelle dei piloti dei caccia anglo americani (almeno così mi sembrava).

Ricordo che, come Alberto Sordi ne Il Vigile, mi guardavo orgoglioso allo specchio e mi sentivo un vero pilota. Immaginavo già l’invidia dei miei coetanei con quella giacca americana e io volavo già sopra le nuvole. Non so perché ma il mito dell’America, per la mia generazione, era fatale. Forse per le interminabili file di camion degli aiuti del Piano Marshall con sacchi di grano che tanto piacquero anche a Burri e che vedevo sfilare davanti alla mia casa, sulla via Flaminia, a Trevi.

Portai quella giacca con molto orgoglio anche se mi pare che ai miei compagni passò inosservata come se non la portassi. E questo fu per me una delusione cocente, eppure io mi sentivo realmente come Sordi nella sua divisa da vigile.

Il mio desiderio di conoscere l’America (e in particolare New York), aumentava con l’età: verso i 17 anni mio padre che faceva il camionista e si recava spesso ad Albano, nelle vicinanze di Roma, dove mi lasciava sul raccordo anulare in prossimità della via Flaminia (e mi riprendeva la sera nel medesimo posto). Poi io un po’ in autostop e un po’ a piedi riuscivo ad arrivare a Roma, in via Veneto, proprio davanti all’ambasciata americana, dove c’era una bellissima biblioteca dell’USIS (United States Information Service). Pare fosse un’idea della CIA per promuovere una certa immagine dell’America e informare gli italiani sulla sua cultura.

Ma sinceramente era una promozione ben fatta. In particolare c’era una rivista di cultura e arte dove vidi per la prima volta un grande contenuto sull’Espressionismo astratto americano, Rothko, Franz Kline, de Kooning, Pollock, che poi rividi nel 1958 alla Galleria Nazionale, nella splendida mostra organizzata da Palma Bucarelli, che alcuni anni dopo espose anche Burri e Manzoni procurando proteste parlamentari sedate da Giulio Andreotti, pare grande ammiratore della bellissima Palma Bucarelli.

Dunque già dall’età di 15 anni vivevo con il mito di New York, che però restava un sogno. Invece il mio sogno si concretizzò alcuni anni dopo, nel 1967, grazie all’incontro di Boxe per il titolo mondiale tra Benvenuti e Griffith e alla generosità del mio amico Pio Monti che mi offrì il viaggio. Da Macerata, gli iscritti dell’Aci avevano organizzato un viaggio Roma New York di una settimana, per assistere al match mondiale Benvenuti Griffith, al Madison Square Garden. Costo, mi pare, 170 mila lire (oggi 85 euro), volo e hotel compreso (e forse biglietto per il match, ma che noi ignorammo). Allora non esistevano i voli low cost e questa occasione offertami da un amico mi parve una manna del cielo. Quando atterrammo a New York, mi pare al vecchio aeroporto Fiorello La Guardia, io camminavo a 50 cm da terra (appena atterrato, di nascosto, baciai il suolo americano). Attorno a me presero corpo i fantasmi di Geronimo, di Buffalo Bill, Pecos Bill, il Piccolo Sceriffo, ma soprattutto di Tex Willer che allora usciva in formato orizzontale a strisce. Ma anche l’emozione di mettere i piedi sulla terra dei poeti che amavo (Walt Whitman, Ezra Pound, T.S. Eliot, Edgar Allan Poe), e di Jackson Pollock, che mi aveva già frastornato in Italia.

Il Cowboy che fuma a Times Square

Un autobus ci portò all’Hotel Piccadilly, proprio sull’angolo con Times Square, con l’immensa immagine pubblicitaria del cowboy dalla cui bocca usciva il fumo della sigaretta Camel. Non potrò mai descrivere quelle emozioni. L’hotel mi sembrò una reggia faraonica, il più bell’albergo del mondo, con i suoi 30-40 o forse 50 piani, immenso e popolato da un via vai colorato e chiassoso, con edicola (Newsstand) aperta 24/24 che vendeva i giornali ma anche generi vari (aspirine, chewing gum, biscotti, panini, cioccolate, ombrelli, cartoline, ecc.).

Insomma molto più del Paradiso Terrestre e di quanto avessi appreso dai miei fumetti. Io, in una stanza al ventottesimo piano con Pio Monti, nel cuore di Manhattan, in un letto grande come non avevo mai visto e accanto il fumatore della Camel con il suo grande cappello da cowboy che mi sembrava sempre più Tex Willer. E dalle cartine stabilimmo che il MoMA sulla 52ma era raggiungibile a piedi e così molte gallerie che allora erano attorno al MoMA. Senza nemmeno una doccia e senza aprire le valigie, io e Pio Monti ci precipitammo a visitare Pace Gallery, Sydney Janis, Leo Castelli, Marlborough. Pio che aveva rapporti con Carla Panicali di Marlborough di Roma, volle subito visitare la casa madre di New York. La mostra era una collettiva da cui Pio, come un cane da tartufi, individuò un bel Rothko che decise sarebbe stato suo.

Iniziò subito le trattative con il direttore della galleria, che mi pare chiedesse venti mila dollari per quel dipinto, forse 70×100. Ma l’opera era bella e appetibile. Pio Monti, parlando in italiano e l’altro in inglese si accordarono appunto per 20 mila dollari, tirò fuori dalla tasca 100 dollari e li lasciò come caparra, chiedendo che l’opera gli venisse spedita alla Marlborough di Roma. Io, rosso dalla vergogna, guardavo la mostra e facevo finta di non conoscere quell’italiano che voleva comperare un Rothko con 100 dollari. Con mia grande sorpresa i due si strinsero la mano e l’affare sembrava concluso – questo un’ora dopo essere arrivati a New York.

Guardammo altre gallerie, in attesa di poter andare l’indomani al MoMA. Tornammo in albergo, per poi mangiare in una bancarella: credo würstel con birra. Ma tutto era estremamente buono e straordinario, l’adrenalina rappresenta una spinta inarrestabile. L’hotel mi appariva lussuoso (mentre quando l’ho rivisto negli anni successivi mi apparve ciò che era, cioè una topaia). La sera a New York mi parve fresca e gradevole, le mille luci di Broadway mi facevano girare la testa e sentire al centro dell’universo. Fu una settimana indimenticabile: visitammo anche la vedova di Ad Reinhardt (Pio voleva comperare un’opera) ma lei, bellissima e ieratica (dopo la morte di Reinherdt divenne la donna dell’Espressionismo astratto newyorchese, compito che esperiva con una grande classe e fierezza sapendo di essere l’amante della Storia), ci rinviò a qualche galleria. Al MoMA io fui preso dalla sindrome di Stendhal, con veri capogiri e mancanza di respiro: le sale dei futuristi italiani che non avevo mai visto in Italia, la Metafisica, il Cubismo, ma soprattutto, nuovo per me, le sale degli espressionisti astratti americani e della Pop Art.

Amici, voi non sapete cosa significhi veramente la sindrome di Stendhal da uno che arriva a New York da Trevi. Tutto era bello, fantastico, incredibile ma che ti faceva restare senza fiato. Ma veramente. Anche il cibo (sempre würstel) mi parve ottimo. Inutile dirvi che visitammo tutte le gallerie possibili, anche i numerosi buchetti che stavano nascendo, io per curiosità innata, Pio per cercare qualche artista nuovo.

Albers prendeva la comunione prima di iniziare ogni quadro

Un giorno Pio mi disse che si doveva andare a New Haven, nel Connecticut (a un’ora di treno) a visitare Josef Albers. Pio, senza alcun appuntamento ma avendo saputo che Albers era religiosissimo, sino al punto di fare la comunione prima di iniziare un nuovo quadro, perché ci disse lui stesso che la comunione lo aiutava a ottenere un’opera santa e perfetta. Parole sue, dette davanti a me e Pio Monti, aprile 1967, pronunciate da uno dei più grandi pittori del secolo: Pio che sulla porta si era presentato con un mazzo di fiori per Annie Albers, tirò fuori dalla tasca una bottiglietta con l’etichetta di Acqua Santa benedetta dal Pontefice Paolo VI. Albers si commosse al punto che quasi cadde per terra; poi baciò le mani di Pio, il cui nome gli ricordava Padre Pio di cui il Maestro era devoto. Peccato che la bottiglietta era stata riempita con l’acqua del rubinetto all’Hotel Piccadilly.

Inutile dire che Josef Albers in quella circostanza (ma anche successivamente) fu molto generoso con Pio Monti che acquistò, mi pare tre quadri, a prezzi veramente modici. In seguito organizzò a Macerata una bellissima mostra di Albers con opere scelte di cui il maestro del quadrato fu molto contento.

Forse dovrò dedicare un altro Amarcord ai miei viaggi incredibili con Pio Monti.

Al ritorno in Italia (io mi portai dietro ricordi, documenti e idee con cui vissi di rendita con Flash Art per alcuni anni: e così avvenne anche in seguito. Un viaggio a New York a comperare idee che erano avanti di cinque anni rispetto all’Europa).

Pio Monti corse dalla Galleria Marlborough e da Carla Panicali a consegnare un assegno postdatato di una settimana per ritirare il Rothko che mise sul bagagliaio della macchina cercando di andare a venderlo al Nord, come diceva lui. Non so dove andò a cercare di vendere il Rothko, ma ricordo, che me lo vidi arrivare a Brescia, dove io in quel momento mi trovavo, disperato perché non aveva venduto l’opera e l’assegno scoperto gli stava scadendo.

Gli presentai un illuminato collezionista bresciano, Antonio Spada, che anche su mia intercessione, gli comperò il Rothko, ma al prezzo a cui Pio l’aveva acquistato. Il quale per non mandare in protesto l’assegno, fu felice di cederglielo. Questo e mille altre cose era Pio Monti, di cui gli appassionati d’arte sanno poco. Come di tanti altri protagonisti dell’arte, dimenticati anche da Wikipedia.

PS. NON SIAMO SU SCHERZI A PARTE
Vorrei precisare una volta per tutte che ciò che racconto sono episodi reali, di vita vissuta in prima persona. Non invento nulla. Semmai trascuro o dimentico qualche dettaglio. Per questo faccio nomi e cognomi di persone incontrate, per eventuali riscontri, anche se molti personaggi incontrati sono ormai scomparsi. In ogni caso vi assicuro che non siamo su “Scherzi a parte”.

Per scrivere a Giancarlo Politi:
giancarlo@flashartonline.com

* Nella foto: Pio Monti e Josef Albers. Fotografia di Giancarlo Politi

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