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LA BUSSOLA DI AGO Pollice verso per White noise di Noah Baumbach

White noise, di Noah Baumbach White noise, di Noah Baumbach
White noise, di Noah Baumbach
White noise, di Noah Baumbach

Mano appesantita, sceneggiatura verbosissima e non esente da spiacevoli prolissità nel film di Noah Baumbach che ha inaugurato Venezia 79

– Inizia Venezia?

– Inizia, inizia.

– Leggevo su Facebook il gran casino delle prenotazioni online…

– Già. Dopo i disastri dell’anno scorso hanno cambiato gestore, ma all’apertura delle danze (alle sette del mattino!) il sito è andato ugualmente in crash, sia il primo che il secondo giorno. Tutti furiosi e nel panico. Poi lentamente il sistema ha cominciato ad assestarsi. Ciò non toglie che il rimpianto per le sane vecchie code sia forte, anzi struggente. Stabilire con un anticipo di due giorni il calendario delle proiezioni da seguire toglie il piacere di guardare film con gli amici trovati in sala per caso, o di cambiare programma all’ultimo momento per infilarsi alla proiezione di un classico restaurato saltando magari il titolo in concorso in odore di sòla… Quello che una volta era, insomma, il gran piacere di venire alla Mostra qui al Lido rispetto al Festivàl di Cannes, dove invece per colpa delle rigidissime gerarchie degli accrediti spendevi i due terzi del tempo a fare file di ore, senza alcuna certezza matematica di riuscire ad entrare, prima che anche lassù, per colpa del Covid, non entrasse in vigore la prenotazione obbligatoria online per evitare gli assembramenti…

– Una vita difficile, insomma.

– Sempre di più. Ti puoi salvare solo con un po’ di Zen, e affidarti alla sorte che, si sa, se le vai incontro ti sorride. Io infatti, senza tanti patemi, sto riuscendo a vedere tutto quello che voglio.

– Beh dimmi, allora: che cosa hai visto di buono?

– Per ora, le 5 ore filate della terza stagione di “Riget”, la serie di Lars Von Trier meglio nota da noi come “The Kingdom”. Il geniaccio danese è tornato nel suo Ospedale edificato sulla palude che nasconde le porte dell’Inferno per concludere degnamente la sua saga rimasta un po’ appesa da quasi 25 anni. Forse il risultato non è all’altezza delle due tornate precedenti: stavolta si è preferito spingere il pedale della satira grottesca più che sull’intenzione di mettere paura, ma resta integro il piacere di abbandonarsi alle dispute tra danesi e svedesi, alle stramberie di primari e chirurghi e ai disordinati movimenti di macchina del “Dogma”.

– “Dogma”? Mi rinfreschi la memoria, scusa?

– Ma come, non te lo ricordi? Verso la metà degli anni ’90 Von Trier invitò una serie di cineasti europei ad adottare un decalogo di regole fisse inderogabili (da cui il “Dogma”) per girare film a basso costo: luci naturali, macchina da presa digitale a mano (cioè senza cavalletto), suono in presa diretta, e un editing libero dai vincoli consueti del corretto montaggio televisivo. Ci hanno provato in parecchi, ma mai nessuno è riuscito ad eguagliare il suo livello. Nemmeno Thomas Vinterberg, che comunque due anni fa il suo bravo Oscar con “Un altro giro” lo ha vinto. Lo stile ormai più che maturo, agilissimo, l’istintiva urgenza che lo sguardo di Von Trier insinua nell’occhio dello spettatore, stimolato senza sosta da mille eventi fusi tra quelli illustrati nel racconto e gli scatti della bulimica, mobilissima scrittura filmica dell’obiettivo, regalano per tutta la corposa ma volatile durata degli episodi montati in due parti, come sono stati presentati qui a Venezia, un piacere cinefilo e intellettuale impareggiabile. Il ruolo del Diabolus è affidato alla scucchia più espressionista del cinema contemporaneo, Willem Dafoe, che indirettamente sbeffeggia col suo ghigno satanico e gli occhi iniettati di sangue il suo Gesù Cristo della “Ultima Tentazione” di Scorsese. Scompaginando il dizionario occidentale-orientale dell’horror cinematografico contemporaneo, “Riget Exodus” (questo è il titolo completo della serie finale) esibisce inquietudini visive essenziali, graficamente inedite, disturbanti quanto le antiche illustrazioni altomedievali, di epoche in cui il mondo era davvero morso da inquietudini e paure concrete, come il buio, la morte, e l’ipotetica assenza di Dio.

– Hai saputo del Parkinson di Von Trier?

– Sì. Una tragedia vera. Speriamo che questo terzo “Regno” non sia il suo definitivo canto del cigno…

 

White noise, di Noah Baumbach
White noise, di Noah Baumbach

– Lunga vita a Lars Von Trier. …E il film d’apertura di Noah Baumbach? Tre anni fa, sempre a Venezia, il suo magnifico “Storia di un matrimonio” non riuscì a spuntarla su “Joker” e sul “J’accuse” di Polanski.

– Quella fu una bella lotta, effettivamente. Altrettanto non so dirti ancora dell’edizione in corso. Vero è che stavolta questo suo “White noise” è piuttosto debole. Non sembra nemmeno un film suo. Baumbach è autore potente e leggero insieme, incisivo affrescatore di microcosmi sociali metropolitani affetti da nevrosi e idiosincrasie strampalate che ci sono sempre state simpatiche e familiari… L’esatto contrario dell’enfasi americana di uno scrittore come Don DeLillo, il cui apocalittico pessimismo non ha niente a che vedere con quel senso di fatalità ebraica che, in dosi pur diversamente moderate, è presente nei film precedenti di Baumbach, compreso “Storia di un matrimonio”. Hai letto il romanzo?

– “Rumore bianco”? Confesso di no.

– Non importa. Non perdi granché, anche se sono l’unico a dirlo. Ho un problema serio con la letteratura contemporanea americana, che trovo enfatica, arrogante, supponente, come se gli scrittori statunitensi si sentissero tutti indistintamente investiti dalla missione di insegnare come si deve stare al mondo a una popolazione di parametrati deficienti. Le preferisco diecimila volte il cinema, che negli Stati Uniti, come una fenice ogni volta muore e rinasce dalle ceneri del proprio mito. Cosa che mi auguro succederà anche dopo i danni, spero contenuti e soprattutto temporanei, provocati dalla cancel culture e dai vari woke recenti. Ma quanta amarezza, quanto dolore vedere argomenti e paesaggi a lui completamente estranei maneggiati da un regista che ci aveva sempre mostrato tutt’altro. Mano appesantita, sceneggiatura verbosissima e non esente da spiacevoli prolissità, e quel che è peggio un manierismo cinematografico che attribuiremmo piuttosto a un giovane epigono di Paul Thomas Anderson, che non a un eventuale erede di Woody Allen… Fermo un giro, Baumbach. Ci rivediamo al prossimo film.

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