Documenta 15 si è conclusa domenica 25 settembre. Si è trattato di un anno di rottura, di un’edizione vibrante che meritava di essere vista. Ecco perché.
Documenta è un’esposizione quinquennale e internazionale d’arte contemporanea nata nel 1955 nella città di Kassel, dall’idea del professore d’accademia Arnold Bode, con l’intento di riportare la Germania in dialogo con il panorama internazionale a seguito della Seconda Guerra Mondiale. Si tratta quindi, fin dai presupposti, di una esposizione importante a livello politico, oltre che artistico. Negli anni si è poi attestata come significativa piattaforma di riflessioni e di confronto sulle ricerche artistiche più contemporanee.
Quest’anno la curatela è stata affidata a Ruangrupa, un collettivo artistico nato nel 2000 a Jakarta, Indonesia. La scelta di proporre una mostra diffusa non è una novità per Documenta, ma quest’anno Ruangrupa ha spostato ancora più in là i confini tra arte e città. La manifestazione ha coinvolto zone prettamente periferiche, ad esempio destinando gli edifici ex industriali a est di Kassel a sedi espositive, come nel caso della Hubner areal o della Sandershaus/Haferkakaofabrick. Tale decentralizzazione è stata una scelta non casuale del collettivo, dati gli intenti espressi nel loro testo.
La parola che descrive il processo di continua evoluzione alla base di questa edizione è infatti Lumbung, parola che deriva da una pratica agraria utilizzata a Bahasa, Indonesia, in riferimento a una distribuzione equa delle risorse di riso immagazzinate dal villaggio. Usata in questi termini la parola fa riferimento a un approccio collettivo, comunitario, fatto di un’orizzontalità inclusiva. La decentralizzazione ha riguardato anche il mercato dell’arte, rispetto al quale Ruangrupa ha preso le distanze, non considerandolo una priorità.
Il 2022 è per Documenta un anno all’insegna della condivisione ed è chiaro sia dalla natura collettiva degli artisti chiamati a esporre, sia dall’approccio partecipativo richiesto al pubblico. In questo senso il riferimento non è tanto all’arte partecipata degli anni Settanta o a quella relazionale degli anni Novanta, ma piuttosto a un’impostazione generale della manifestazione. In ogni sede si potevano trovare infatti sale con grandi cuscini o bar, quindi spazi dedicati alla condivisione di momenti, attività e pensieri. Un luogo tra tutti a proporre questo invito allo scambio è stata la ruruHaus. Qui l’ambiente ha permesso un dialogo tra i visitatori, promosso da un fitto calendario di attività, punto di partenza per una generatività fertile di idee, nella convinzione che questa pratica di scambio, insieme alla forza comunicativa dell’arte, si trovino alla base di una comprensione dell’attualità e di un conseguente tentativo di miglioramento della realtà; come base per un’onda lunga che guardi a innovazione e sostenibilità.
Documenta Quindici si è caratterizzata per una preponderanza di videoarte, per questo motivo il pubblico rischiava di avere un tempo limitato per orientarsi tra le varie sedi dell’esposizione. Si propone qui di seguito una selezione, nello specifico di sei opere video particolarmente forti, sulla base dei diversi approcci che gli artisti hanno utilizzato per affrontare tematiche di rilevanza attuale.
Sei opere video particolarmente forti
Un primo approccio può essere quello dell’ironia: elemento che in questa Documenta non è mancato e che si dichiarava fondamentale, presentandosi fin dalla prima installazione che accoglieva il visitatore. Ovvero Horizontal Newspaper di Dan Perjovschi, posta nella piazza della stazione di Kassel. Così come Smashing Monuments di Sebastián Díaz Morales, allestita nello spazio della Hubner areal. Un film di 50 minuti da cui emerge un interessante rapporto tra cittadino e arte pubblica. L’opera propone un dialogo tra protagonisti: da un lato vari componenti del collettivo Ruangrupa e dall’altro i monumenti simbolo della città di Jakarta. Mentre gli artisti pongono domande ai monumenti, esprimono considerazioni, immaginano le parole di chi vive la città da molto tempo più di loro, emerge un umorismo straniante dal rapporto umano-materia bronzea. Sotto lo sguardo delle statue passa la storia delle città; potessero parlare avrebbero sicuramente molto da dire.
Nella stessa sede espositiva si trovava anche una seconda opera video. Si tratta dei Tokyo Reels, ovvero film documentari giapponesi salvati dall’oblio grazie al lavoro d’archivio dei Subversive Film. Questi, con la loro ricerca, hanno riportato alla luce veri e propri documenti riguardanti porzioni di storia, se non dimenticata, superficialmente conosciuta. Porzioni di storia crude quanto reali. L’approccio, quindi, è quello archivistico e permette in questo caso di presentare questioni geopolitiche legate alla Palestina e alle regioni limitrofe. I Subversive Film si pongono nel solco dello slogan “Il passato è presente” che ha accompagnato Documenta attraverso manifesti e che è stato sostenuto da molti altri gruppi artistici attraverso il loro lavoro. Come i The Black Archives o gli Asia Art Archive.
Si può poi parlare di intento documentaristico per quanto riguarda le opere di due gruppi artistici: LE 18, con sede a Marrakech, e Atis Rezistans | Ghetto Biennale, con sede ad Haiti. Le opere video in questione erano esposte rispettivamente alla WH22 e alla Chiesa St. Kunigundis.
Entrambi i video raccontano la vita del proprio collettivo, con un particolare stile a metà tra quello osservativo e quello partecipativo. Vengono documentati momenti diversi, dalle attività di laboratorio, ai problemi quotidiani, alle azioni di più pratica natura. Il pubblico può conoscere così le bizzarre contrattazioni che sono alla base della sopravvivenza del collettivo Atis Rezistans, o le difficoltà pratiche che si incontrano in una città dalla singolare urbanistica, come Marrachech, nel portare un motorino sulla strada.
Un intento documentaristico resta, insieme a una capacità poeticamente evocativa, nel video Diyari Giuanè del gruppo The Rojava Film Commune – collettivo che lavora per la proiezione e la produzione di film nella zona siriana. Quest’opera si trovava all’interno del Fridiricianum ed è ambientata nel Kurdistan. Tra le righe tratta diverse tematiche, quali il rapporto intergenerazionale in paesi prevalentemente agricoli o l’attaccamento alle tradizioni. Protagonista emerge invece, seppur con grande delicatezza, la questione delle rivalità e delle discordie tra popolazioni vicine, quella curda e beduina. Il filo conduttore del racconto è la somiglianza tra la musica tradizionale dei due popoli, che si fa risalire al loro simile rapporto con la natura. Attraverso danze, balli e interviste emerge una familiarità nell’arte della musica. L’argomento si presta a divenire metafora di schemi comuni nella storia dell’uomo.
Infine, vi è la sfera dei film muti come Monument di ikkibawiKrrr, collettivo sudcoreano. Il ritmato alternarsi di immagini e didascalie e un accompagnamento musicale cadenzato, fa di questo film uno dei più interessanti, impegnati, e forti di tutta l’esposizione. Gli artisti si muovono tra natura e questione postcoloniale, filmando resti architettonici e paesaggi in aree un tempo interessate dalla Guerra del Pacifico. Il video propone un susseguirsi di didascalie le quali, più o meno esplicitamente, fanno riferimento al lavoro forzato che durante l’invasione giapponese era stato imposto alle popolazioni della Corea, della Micronesia e di Okinawa. Nel titolo echeggia una commemorazione evocata dalla desolatezza degli edifici inquadrati. L’installazione, che si trovava nella sede del Naturkundemuseum im Ottoneum, si componeva del video, a doppio canale, e di una serie fotografica.
Il tentativo di Ruangrupa di riportare attraverso l’arte luce sulla storia dell’umanità, soprattutto nelle sue ombre, può considerarsi senz’altro riuscito per quanto riguarda questa quindicesima edizione di Documenta. Resta ai visitatori la sfida a far proprio il monito di questa esposizione, attivando pratiche di esercizio a uno spirito comunitario e a un senso collettivo.