In occasione delle residenze Desert 23°S (Deserto di Atacama, Cile) e Tropic 08°N (Kuna Yala, Panama) – organizzate da La Wayaka Current lo scorso aprile e maggio – l’artista Giulia Fumagalli racconta CL/PA – the travel, progetto realizzato grazie al sostegno dell’Italian Council (X edizione, 2021), programma di promozione internazionale dell’arte italiana della Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura.
Hai recentemente partecipato a due residenze artistiche organizzate da La Wayaka Current nel deserto di Atacama e a Kuna Yala. Quali esigenze in termini di ricerca ti hanno condotto in Sud America e incentivato nel partecipare al bando Sviluppo dei talenti di Italian Council?
Ho sempre avuto una passione per il Sud America, soprattutto per il Cile, quindi sono stata molto contenta che le residenze fossero lì, anche se il luogo non è stato un fattore determinante per la mia scelta.
Da anni sto lavorando e riflettendo sul concetto di tempo, inteso sia come intervallo temporale e pausa sia come ritmo, cammino e respiro. Ho letto molti libri sull’attesa e sulla lentezza, ma non ero pienamente soddisfatta di quello che ero riuscita a scoprire, motivo per cui ho sentito il bisogno di vivere una mia personale pausa temporale.
I progetti di residenza di La Wayaka Current mi hanno subito particolarmente colpita: veniva illustrato il particolare rapporto che le popolazioni indigene hanno sviluppato con la natura e la totale disconnessione dal mondo tecnologico. Le due residenze erano un invito a immergersi in realtà distanti dal veloce mondo occidentale e vivere a contatto con culture che hanno inevitabilmente ritmi e tempi molto differenti.
È stata, per me, la residenza più forte e complessa che abbia fatto finora.
La ricerca e la riflessione che porti avanti sulla dimensione temporale, sia all’interno delle tuoi lavori sia nell’esperienza complessiva della residenza, è ricca di spunti interessanti. Questa idea del tempo inteso come attesa, pausa e ritmo ti ha mai spinto a confrontarti con modelli e produzioni artistiche precedenti?
Ovviamente ci sono molti artisti che mi affascinano e che hanno lavorato sull’idea di tempo, ma ammetto di essere molto attenta anche a quanto accade a me e all’interno della società attuale. In questo momento riflettere sul tempo significa prendere in considerazione ciò che è effettivamente la società contemporanea, la sua velocità e i suoi ritmi.
Ciò che mi ha spinta a partecipare alle residenze in Cile e a Panama é stata appunto la possibilità di conoscere altri modi di vivere e di ridimensionare il carattere univoco dello stile di vita occidentale.
Nel tuo progetto racconti della possibilità di ritornare alle origini, a un tempo personale e a nuove visioni. Che cosa ha significato per te tornare alle origini e, a seguito della tua esperienza, com’è stato confrontarti nuovamente con quanto avevi lasciato in Italia?
Ho vissuto esperienze che non corrispondono effettivamente alle mie origini, non mi sono mai trovata in situazioni di quel tipo durante la mia vita. Quelli che ho vissuto in residenza sono stati episodi di cui non ho mai avuto neanche concezione, soprattutto perché legati al paesaggio e alle sue limitazioni. Non è stato un vero e proprio ritorno alle origini, ma più che altro un’immersione in un mondo nuovo che mi ha sempre affascinata. Ho vissuto dinamiche che non potevo controllare proprio perché non le conoscevo e mi sono lasciata trasportare dalle vibrazioni e dalle energie del momento.
Tornata in Italia la difficoltà più grande è stata rendermi conto che tutte le esperienze vissute non erano replicabili: le residenze sono state vere e proprie parentesi temporali.
Durante il viaggio CL/PA – the travel è evoluto e mutato rispetto quanto progettato in precedenza?
CL/PA – the travel nasce come archivio temporale di immagini e di scritti che compongono una sorta di diario di viaggio. Mi sono goduta quanto ricevuto senza troppe aspettative: in Cile è stato più facile perché non conoscevo il nome della comunità indigena che mi avrebbe ospitata e quindi non ho potuto fare ricerche, mentre per Panama sapevo che mi sarei interfacciata con il popolo Kuna e, per paura di confrontarmi con un mondo molto caratterizzato e trovarmi in difficoltà, ho cercato informazioni.
I pochi risultati trovati riportavano tutti le seguenti parole: società matriarcale. Ero quindi molto incuriosita dalla possibilità di poter entrare in contatto con una sensibilità femminile predominante.
Arrivata nel villaggio mi sono resa conto fin da subito che la struttura sociale e politica dei Kuna era invece completamente maschile e, infatti, durante le tre settimane ho avuto pochissime occasioni per poter dialogare con soggetti femminili.
Il mio modo di lavorare si è adattato alle limitazioni e alle caratteristiche del posto.
Sono entrambi luoghi estremi in cui vivere, dove la comodità e la velocità nel reperire materiali è davvero dilatata nel tempo.
In Cile dovevo camminare un’ora per poter raggiungere la città di San Pedro, cittadina turistica dove i negozi di cartoleria erano pressoché inesistenti, mentre nella giungla dovevo affidarmi alla popolazione, visto che il trasporto dei rifornimenti avveniva via mare.
Nel deserto ho realizzato un lavoro sul vento, utilizzando fogli di carta trovati in un negozio di oggettistica per turisti ed elementi naturali che ho recuperato all’interno dell’oasi di Coyo.
Mentre a Kuna Yala avrei voluto realizzare un lavoro in cera, ma le cinquanta candele ordinate mi sono state consegnate qualche giorno prima della partenza e quindi ho dovuto adattare il lavoro utilizzando della carta riciclata. Anche l’uso della corrente elettrica, per l’avviamento del frullatore necessario per la tritatura del cartone, era limitato ad alcuni ore del giorno, quando il generatore veniva acceso.
In questi contesti, dove i limiti imposti dal nuovo stile di vita sono molti, inevitabilmente si raggiunge una maggiore capacità di sperimentare e trovare soluzioni lavorative.
Durante le residenze hai dovuto ripensare il tuo lavoro in merito a strumentazione e materiali. Quale ruolo pensi possa avere questa esperienza sul tuo lavoro futuro?
Solitamente lavoro con il plexiglass, ma mi piacerebbe poter lavorare con materiali nuovi e sperimentare qualcosa di diverso. Sto producendo lavori che spero riescano a contenere o riportare alcune immagini ed esperienze che ho vissuto.
Centro Luigi di Sarro (Roma) e Spazienne (Garbagnate Milanese) stanno collaborando con te per CL/PA – the travel, nello specifico per la realizzazione della mostra e per la stampa del libro che verrà presentato in occasione della tua personale. Attraverso quali modalità hai pensato di restituire la tua esperienza nel progetto di novembre?
La mostra sarà al Centro Luigi di Sarro a Roma, il quale è anche partner del progetto: è un’istituzione promotrice di scambi culturali che ha accolto positivamente il mio progetto e una realtà con la quale avevo già collaborato per una precedente residenza artistica in Sud Africa.
Il tema dell’esposizione sarà legata alla traduzione del paesaggio e al concetto di pieno e vuoto, non solo come opposti ma più che altro come conseguenza l’uno dell’altro.
Inizialmente ho provato a creare un collegamento logico tra le due residenze, ma essendo state esperienze così diverse tra loro, l’unico punto comune era il concetto spaziale di vuoto e di pieno che, analizzato non sono a livello paesaggistico, si è trasformato in un rapporto consequenziale: nel vuoto del deserto mi sono arricchita, nel caos e nell’abbondanza della giungla a volte mi sono sentita persa, svuotata.
La mostra nasce in dialogo con l’artista Aran Ndimurwanko, che ha condiviso con me i due mesi di residenza.
Spazienne a Garbagnate Milanese è invece il partner che si occuperà della stampa del libro e della realizzazione dell’apparato di comunicazione.
Oltre all’ecologia e a un’attenta riflessione sulla materia e sul paesaggio, mi sembra che l’immaginario del vuoto e del pieno sia stata una costante nei tuoi lavori precedenti alle residenze in Sud America.
Credo di sì, ma non avevo mai focalizzato questo concetto nello specifico. In questo caso è stato proprio quello che ho intimamente vissuto durante le residenze. La mente aveva la possibilità di viaggiare continuamente tra il vuoto e il pieno. Il paesaggio influisce molto sul modo in cui le persone vivono: nel deserto, dove le materie prime non abbondano, la comunità Lican Antay ringrazia e prega la Madre Terra in una continua ritualità quotidiana per tutto ciò che riceve. I Kuna, invece, che vivono nell’abbondanza, non hanno un atteggiamento di venerazione seppur si pongono come protettori della natura.
Questo diverso rapporto che i popoli Lican Antay e Kuna hanno con la natura ha condizionato il tuo vivere la quotidianità in qualche modo?
Durante le residenze ho avuto modo di conoscere non solo il loro modo di vivere e i loro rituali, ma anche le loro difficoltà. Ciò mi ha portato a dedicare molta più attenzione riguardo allo spreco dell’acqua, principale problema riscontrato nel deserto, e allo smaltimento dei rifiuti, difficoltà che ho ritrovato nella giungla. Mi piacerebbe molto riuscire a svolgere alcuni rituali appresi, ma come dicevo prima, è molto difficile riuscire ad adattare quel modo di vivere alla nostra società.
In questi mesi hai costruito molteplici e diverse modalità di restituzione sulle due residenze. Particolarmente interessante è il modo in cui hai cercato di convogliare quanto vissuto sui social media: hai proposto un racconto costruito di immagini e di riflessioni, a tratti confidenziali e ricche di poesia, rivisitando in formato digitale l’immaginario del diario di viaggio. Com’è stato il tuo rapporto coi social durante le residenze?
È stato alquanto casuale e spontaneo. Ho cercato di rendere la comunicazione e il racconto fluido, senza costruzioni, semplicemente basandomi su quanto facevo durante il giorno.
In Cile internet era reperibile sono in un punto specifico all’interno dell’oasi di Coyo e i minuti a mia disposizione erano all’incirca tre, mentre a Kuna Yala internet era più accessibile: all’interno del villaggio si trovavano facilmente delle capanne/market nel quale si potevano comprare ore di wi-fi. Nonostante la possibilità di avere più o meno accesso a internet, la cosa che mi premeva era riuscire a utilizzare quei momenti in modo sano, senza ricadere nella foga della iper-connessione.
Con la pubblicazione del libro ci sarà una modalità di restituzione anche prettamente editoriale. Si può considerare la scrittura una componente legata alla realizzazione dei tuoi lavori?
Si, scrivo tanto e per lo più cose personali. Solitamente non rileggo mai quanto scritto o comunque se lo faccio è sempre a distanza di tempo, così da ricercare nei miei appunti spunti per i miei lavori.
Il libro stampato in risograph che presenterò durante la mostra a Roma racconterà, in un’alternanza di scritti e fotografie, le esperienze vissute.
Avrà un doppio inizio, uno per residenza: ognuna delle due parti conterrà un racconto generico sulle due comunità indigene, tre brevi approfondimenti scritti in loco e un manifesto.
Mi piacerebbe realizzare anche una restituzione più intima attraverso un libro d’artista in formato fanzine.
Non sono una scrittrice ma spero comunque di riuscire a trasmettere la mia esperienza in modo chiaro, anche perché mi sembra doveroso dover condividere la storia, la vita e le difficoltà delle due comunità che mi hanno ospitata. Spero di esserne all’altezza.
Questo contenuto è stato realizzato da Eva Adduci per Forme Uniche.
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