Amarcord 18. Ricordi di Praga (parte seconda) – Un nuovo appuntamento con la rubrica di Incontri, Ricordi, Euforie, Melanconie di Giancarlo Politi
<leggi qui Ricordi di Praga – parte prima se te le sei persa>
Jiri Kolar, il mistero di un grande artista fuori dal mercato
Rileggendo la lettera di Jiri Kolar, pubblicata in Flash Art nel 1976 e ripubblicata nell’Amarcord precedente, mi viene la pelle d’oca. E ancor più la vicenda che riguarda Bela Kolarova, la moglie di Kolar, che recatasi da Parigi a Praga nel 1981, per cercare di mediare sulle opere di Kolar e l’appartamento che il regime gli aveva confiscato ma fu trattenuta contro la sua volontà a Praga per alcuni anni. Incontrammo Kolar a Parigi più volte (nella capitale francese lavorava felicemente, forse in esclusiva – anche se per Kolar l’esclusiva era un termine sconosciuto – con Lelong, galleria di prestigio ma poco dinamica); continuavo a portargli centinaia di copie dei Maestri del Colore, come più frequentemente avveniva a Praga.
Talvolta recandomi a Praga, avevo la macchina piena dei Maestri del Colore che alla dogana cecoslovacca guardavano con sospetto e sfogliavano in modo scrupoloso. Il volume su Botticelli era il preferito di Kolar e con cui realizzava dei collages botticelliani bellissimi. Una volta incrociai da lui Umberto Eco che gli aveva portato anche lui, alcune copie di questi famosissimi (peccato non siano stati più ristampati) e utilissimi fascicoli. Umberto, arrivando in aereo, poteva portargli solo una decina di copie, mentre io in macchina ne portavo sempre un centinaio.
A Parigi Kolar era felice perché respirava la grandeur della città che aveva sempre sognato e l’aria di libertà che per lui emanava dalla capitale francese. Parigi infatti ha rappresentato sempre il mito e il riferimento di ogni artista o letterato o intellettuale cecoslovacco (della generazione di Kolar) della cui cultura erano imbevuti e tutti parlavano correntemente il francese e il tedesco (molto meno l’inglese, lingua nemica). Ad eccezione di Jiri Kolar che parlava solo il ceco. Ma dopo la partenza di sua moglie Bela per Praga, dove era trattenuta a forza, Kolar era molto abbattuto e ci raccontò che ogni giorno spediva una cartolina fatta di collage alla moglie. La cosa ci sorprese favorevolmente perché a noi, durante le nostre visite a Praga, e furono tantissime, ci sembrò che sua moglie, artista anche lei, venisse un po’ soffocata dalla personalità del marito.
La vedevamo un po’ frustrata che si aggirava per la casa, preparandoci il thé con dei biscotti preparati da lei. Immaginammo che tutti i collezionisti che arrivavano nella casa-studio di Kolar, guardavano lei come una casalinga. Invece in lei covava una forte personalità artistica, che si esprimeva attraverso un femminismo molto raccolto, intimo e raffinato. Lei ci fu molto grata perché noi ci interessammo al suo lavoro e Helena le fece una bellissima intervista, pubblicata poi in Flash Art, che ci rivelò una donna e una artista, che sotto il carattere mite e apparentemente sottomesso al grande marito, covava una originalità e vitalità prodigiosa. Dopo l’intervista ci fece omaggio di una sua bellissima opera realizzata con lamette da barba incollate sulla tela e da cui affioravano strane immagini. Purtroppo un nostro domestico cingalese, a nostra insaputa e non sappiamo per quale ragione la gettò nella spazzatura. La stessa fine fece un Kippenberger. Ma oggi, Bela Kolarova, deceduta nel 2010 (mentre il marito è mancato nel 2002), nella Repubblica Ceca è stata riscoperta e rivalutata e in questo momento è più apprezzata del grande Kolar.
Bela, ora rappresentata dalla importante galleria londinese, Richard Saltoun, che dedica una particolare attenzione al femminismo e al lavoro delle donne, sta avendo anche un buon successo internazionale. E sul mercato, a Praga, incredibilmente i suoi prezzi sono molto superiori a quelli del marito. E comunque per me resta il mistero dell’assenza di Kolar dal mercato internazionale: non riesco a capire perché una grande galleria internazionale non voglia gestire la sua opera, colossale, invece di cercare di scoprire giovani dalla vita breve e dai prezzi impossibili. Per me resterà sempre un enigma. Malgrado abbia speso più di sessant’anni dentro l’arte, conoscendo top galleristi, artisti, collezionisti, non ho capito come funziona il mercato dell’arte. In questo momento in particolare, le opere di Kolar sarebbero molto apprezzate e farebbero la fortuna della galleria se proposte in modo adeguato, attraverso la sua riscoperta anche critica.
Ma vorrei qui ricordare un incipit di una sua poesia nel periodo del dissenso praghese:
Avete scusato i delitti e osannato al tradimento?
Datene colpa al partito.
Avete taciuto, anche quando l’erba gridava?
Datene colpa al partito.
Avete scritto, quando anche l’inchiostro arrossiva?
Datene colpa al partito.
Avete creduto, anche quando nemmeno la mezzanotte credeva ai propri occhi?
Datene colpa al partito.
Siete sempre rimasti attaccati al truogolo?
Datene colpa al partito.
I giustiziati per voi erano schegge nel taglio del bosco?
Datene colpa al partito.
E qui invece, alcuni versi, dopo che era stato colpito da un ictus a Parigi ed era a Praga aspettando la morte:
La fine spegne tutto.
Le mani inerti, il cuore spento.
L’anima di ghiaccio, la testa svuotata,
la memoria bucata, le gambe schiacciate,
la lingua strappata, la speranza annerita,
la fiducia sconvolta,
l’amarezza regna dovunque
Ma anche alcuni versi di una canzone di Francesco Guccini sulla Primavera di Praga:
Son come falchi quei carri appostati,
Corron parole sui visi arrossati,
Corre il dolore bruciando ogni strada
E lancia grida ogni muro di Praga.
Quando la piazza fermò la sua vita,
Sudava sangue la folla ferita,
Quando la fiamma col suo fumo nero
Lasciò la terra e si alzò verso il cielo.
Ma vorrei tornare al 1976, alla mia prima esperienza praghese, che per me, straniero anche se ho subito qualche angheria di troppo, fu straordinaria. E quando oggi torno, un po’ mi manca quella Praga del regime, con la sua aria metafisica, con pochi e grigi turisti della Germania orientale o russi. Con Helena frequentavo tutti gli artisti più noti, Milan Knizak, Stanislav Kolibal, Milan Grygar, Adriena Simotova, Eva Kmentova, Vaclav Bostik, Karel Malich, ma soprattutto il gruppo dei concettuali, duri e puri, seguendo quando possibile, i loro interventi o performance nei posti più incredibili e segreti, spesso con la presenza solo di un amico fotografo per documentare la loro azione.
Tutti e quattro (come era d’obbligo a quei tempi; non doveva esistere disoccupazione), avevano un lavoro per sopravvivere, quasi tutti nei musei, per cui non erano interessati al mercato, che comunque non esisteva per nessuno, a parte Kolar. Per loro esisteva il lavoro di artista e basta, senza compromessi. E il loro lavoro nei musei non era affatto stressante tanto sapevano che non esistevano promozioni o riconoscimenti. E lo stipendio di magazziniere o direttore, era pressoché identico. Ogni volta che abbiamo fatto visita a loro o ad altri, li trovavamo raccolti in una stanza a prendere il thé con biscotti portati da casa da qualcuno di loro. Regime duro allora in Cecoslovacchia ma lavoro leggero, anzi, leggerissimo. Ricordo anche che la prima volta che incontrai i quattro artisti concettuali (Miler, Mlcoch, Stembera, Kovanda), e questo avvenne nel settembre del 1976 e non conoscevo la psicologia del paese e degli abitanti, per farmi benvolere e metterli a loro agio, dissi loro: “I am comunist.” Sono comunista. Cosa tra l’altro non vera perché ho sempre guardato con sospetto e spesso con irritazione il PCI. Ricordo che i quattro artisti mi guardarono con uno sguardo gelido, come si guarda un serpente a sonagli. E io che mi aspettavo abbracci e baci! Poi Helena mi spiegò che dopo l’invasione russa, da parte dei giovani cecoslovacchi serpeggiava un odio feroce per tutti i russi e i comunisti, considerati complici del regime. Quando capii, spiegai che in realtà io ero socialista che era tutt’altra cosa rispetto al PCI (ed era vero, tra l’altro proprio in rappresentanza del Partito Socialista Italiano, di cui ero segretario a Trevi, negli anni sessanta, divenni anche sindaco della cittadina per alcuni mesi, prima di scappare senza lasciare tracce, visto come il partito comunista riusciva a manipolare tutto il consiglio comunale, esautorando completamente noi socialisti e me sindaco. Ricordo anche che un tecnico del PCI, installò di soppiatto dei microfoni nella nostra sede di partito collegandoli alla loro. A rifletterci oggi verrebbe da ridere ma a quei tempi il PCI controllava ogni movimento di ogni persona, anche in un piccolo paese di provincia come era Trevi. Riuscendo a sapere se un loro iscritto (ed erano tanti) aveva votato per un candidato diverso da quello indicato dal partito. Non ho mai capito come riuscivano ad effettuare tali controlli, venendo a sapere anche per chi votavi. Comunque una volta dissipato l’equivoco, con i giovani artisti di Praga, diventammo amici e si confidavano volentieri, oltre che con Helena, anche con me. E io, arrivato dall’Italia, rimasi ammirato da questo loro comportamento di artisti assolutamente puri, slegati dal mercato ma anche dalla ricerca di pubblicità e notorietà. Per loro era insignificante che il lavoro venisse pubblicizzato o riconosciuto, anche se felici se qualche amico li apprezzava. Importante era documentare il lavoro, ma quasi per loro stessi o forse per i posteri. Infatti oggi, che sono riconosciuti i protagonisti assoluti del concettualismo cecoslovacco degli anni ’70 e del cambiamento dell’arte in quel paese, malgrado una documentazione frammentaria e di cattiva qualità, gli sono stati pubblicati monografie e libri teorici. Loro mi furono molto grati perché gli portavo dall’Italia, libri e cataloghi in inglese: di Documenta, Biennale di Venezia e grandi mostre internazionali. Particolarmente apprezzato fu il famoso libro di Lucy Lippard: Six Years: The dematerialization of the Art Object from 1966 to 1972. Una bibbia per loro.
Jindrich Chalupecky, il nostro amico critico e filosofo?
Altro personaggio che noi incontravamo sempre e più volte mentre eravamo a Praga, era Jindrich Chalupecky, riconosciuto da tutti come il più importante filosofo, critico e saggista cecoslovacco. Chalupecky, amico anche di Giulio Carlo Argan e dei maggiori intellettuali europei dagli anni ’50 in poi, è stato uno dei più importanti studiosi di Marcel Duchamp, che invitò a Praga e di cui organizzò una grande mostra. Noi trascorrevamo ore e ore con lui, al bar o al ristorante, mentre lui ci parlava della vita culturale di Praga, soprattutto negli anni trenta e quaranta. In quegli anni lui era il maggior teorico del surrealismo ceco, che ha avuto un forte impatto nella cultura visiva del paese. Ma dal 1970 il regime chiuse la galleria con cui collaborava, la Vaclava Spaly, la più importante galleria del paese, in cui aveva realizzato appunto la grande mostra di Marcel Duchamp e anche del Gruppo Gutai: fu messo in pensione con una cifra da miseria nera e gli fu impedita ogni forma di attività, per cui i suoi testi circolavano sotto forma di samizdat e all’estero attraverso qualche collaborazione (Flash Art, Studio International, Opus International, ecc.) da cui percepiva anche un piccolo sostegno economico. Malgrado queste collaborazioni, il grande Chalupecky, padre di più generazioni di artisti e artiste, entrò nel tunnel della povertà, che però lui affrontò con grande dignità, sempre elegante e senza mai compiangersi. In ogni caso era un grande intellettuale, una mente lucida e penetrante, rispettato in tutta l’Europa ma ridotto alla fame dal regime. Avrebbe voluto viaggiare, recarsi soprattutto a Parigi, della cui cultura era innamorato, ma per ragioni economiche, per le restrizioni e per la moglie malata, non poté realizzare questo sogno. Peccato, avrei fatto qualsiasi cosa per aiutarlo. Avevo trovato anche una persona che si sarebbe occupata di sua moglie e tramite Jean Clair, allora mio amico, gli avrei fatto ottenere una borsa di studio. Ma il regime fu inflessibile. Dalla cortina di ferro non si esce. Ogni volta che arrivavo a Praga gli portavo dei medicinali che non trovava in quella città. Una volta mi chiese di passare da Arturo Schwarz qui a Milano che gli doveva una certa somma per alcune collaborazioni. Quando andai da Schwarz, notoriamente attento al denaro, fui sorpreso perché lui aveva depositato la cifra per Chalupecky in banca e al momento risultava più che raddoppiata per gli interessi bancari. Ricordo che mi diede 950 mila lire con cui comperai tutti medicinali, per Chalupecky e sua moglie. Ma anche George Brecht, di cui Schwarz aveva realizzato una mostra, Daniel Spoerri e forse lo stesso Kolar, mi parlarono di Arturo Schwarz come di una persona super professionale e molto corretta. Io fui sorpreso quando Brecht, allora a Colonia, per dimostrarmi la correttezza di Schwarz, mi mostrò il resoconto della sua mostra: dal compenso dovuto (credo che Schwarz gli avesse acquistato tutta la mostra, come faceva spesso) il gallerista milanese aveva dedotto il costo della luce durante il periodo della mostra, del riscaldamento, della sua segretaria e altre voci che non ricordo. Con un conteggio esatto esasperatamente meticoloso. Ciò che a me sembrò un paradosso, per tutti gli artisti che avevano lavorato con lui, questo era un segnale di grande professionalità e generosità, anche perché erano tempi in cui raramente gli artisti venivano retribuiti per i loro lavori venduti. Invece Schwarz, deduceva tutte le spese incontrate è vero, ma ogni artista riceveva una cifra, con regolare resoconto. E tutti erano felici e contenti. E anche anni dopo, tutti rimpiangevano i tempi con cui avevano lavorato con lui.
Jindrich Chalupecky è morto nel giugno del 1990. Nemmeno il tempo di assaporare l’agognata libertà dal regime che aveva tanto odiato, caduto nel novembre 1989, anticipando di sei mesi la caduta del muro di Berlino. Ma a partire dal 1991 è iniziata la riscoperta e la glorificazione nazionale di Chalupecky, con la pubblicazione di tutti i suoi testi, In difesa dell’arte, pubblicato già nel 1988 come samizdat. Ora il povero pensionato che scriveva articoli per Flash Art in cambio di medicine per curarsi, è una gloria nazionale.
Fu Havel, futuro Presidente della Repubblica Ceca e amico di Chalupecky, a iniziarne la riscoperta e la glorificazione. Fu lui, insieme a Jiri Kolar ad istituire il famoso Premio Chalupecky, riservato a un giovane artista al di sotto dei 35 anni. Questo ambìto premio nella Repubblica Ceca, per importanza e prestigio, viene equiparato al Turner Prize.
Da incendiario a pompiere: Milan Knizak
Un altro personaggio che noi frequentammo a partire dal 1976 fu Milan Knizak. Io lo contattai perché me ne parlò Ben Vautier, che aveva partecipato a un Festival Fluxus nel 1966 a Praga, organizzato proprio da Knizak, all’epoca promosso dal padre padrone di Fluxus, Georges Maciunas, direttore di Fluxus East. Carica che non significava nulla ma che contribuì a dare adrenalina e coraggio a Knizak e di mettersi a capo di un gruppo di giovani attori e musicisti rock e a realizzare azioni irriverenti e irridenti in strada o nei parchi pubblici. Per tale ragione fu anche processato e arrestato per un breve periodo. Il Milan Knizak che frequentammo noi era un giovane divertente e baldanzoso, forse un po’ incosciente ma simpatico. Gli comperai anche una decina di opere, pagandole come e quanto potevo. Cioè molto poco. Perché io parlo della povertà degli intellettuali di Praga, ma la mia economia a Milano non era certo florida. Però a Praga mi aiutava il cambio favorevole. I marchi e i dollari, nel cambio clandestino (praticato da tutti i turisti) erano valutati anche sette otto volte il cambio ufficiale. Dopo un paio di raggiri subiti in cui invece di corone ceche mi misero in mano, senza che io me ne rendessi conto, monete fuori corso della Bulgaria, incontrai un ragazzo simpatico, Roman, che si comportava correttamente. Lo chiamavo a casa e lui mi portava una borsa di corone cecoslovacche in cambio di pochi dollari e marchi tedeschi (particolarmente apprezzati). Corone che poi io destinavo a Kolar e Knizak. Un paio di volte, con Helena, abbiamo trascorso i week end nella casa di campagna di Knizak, vicino a Marienbad. Io fui entusiasta di accettare l’invito, soprattutto per visitare Marienbad, per me un mito. Avevo letto con grande trasporto L’anno scorso a Marienbad di Alain Robbe-Grillet, esponente di primo piano della parigina Scuola dello sguardo e ricordavo la magistrale interpretazione di Giorgio Albertazzi nel film omonimo di Alain Resnais. Un film che è rimasto impresso in modo speciale nella mia memoria e che non voglio rivedere per timore di restarne deluso. Le grandi sensazioni o reminiscenze del passato vanno poste in bacheca, mai cercare di riviverle. La mia infanzia, pur tra privazioni e guerra vissuta, mi è sempre apparsa bellissima. Ho solo ricordi magici, anche della guerra e dei soldati tedeschi prima, (con il tenente Hans che mi dava le caramelle e mi prendeva in braccio facendosi fotografare perché avevo la stessa età di suo figlio) e americani poi. E delle corse sulle colline per assistere al combattimento tra aerei avversari, e i soccorsi prestati ai piloti degli aerei abbattuti che si paracadutavano nella campagna, e la fuga precipitosa in caso di allarme, nei rifugi (che erano soltanto delle fosse nei campi vicino casa), con il crepitio delle pallottole che passavano a pochi centimetri da me, accucciato sotto mia madre che mi copriva con il suo corpo: ma vivevo quei momenti senza paura, anzi, inspiegabilmente con intensa emozione positiva. Eppure non avevo ancora la percezione del senso eroico. La guerra e la vita erano uno straordinario spettacolo che io guardavo come un film e che non mi sfiorava. Per questo ripenso alla mia infanzia come a un bellissimo film sfuocato e che però non vorrei rivedere per timore di restarne deluso, come è avvenuto con tanti libri che ho tentato di rileggere dopo cinquanta anni. Ecco, per me Marienbad è uno di questi luoghi sacri della memoria che mi porto dietro come un sogno. Per questo ero felice, con Helena, di accettare gli inviti di Milan Knizak nella sua casa vicino a Marienbad. Poi l’indomani mi perdevo tra i porticati delle terme, rivivendo le emozioni e i dubbi di Giorgio Albertazzi e della donna sconosciuta e senza memoria che lui sosteneva di aver amato l’anno prima.
Dunque era benvenuta anche la carne bruciacchiata preparata al focolare da Knizak e avere per toilette il bosco circostante. Io aspettavo solo di andare a Marienbad.
Milan Knizak in quegli anni era un personaggio divertente e un po’ guascone, come piaceva a me. A quei tempi, sapendo che aveva contestato il regime e arrestato per questo, lo guardavo come un eroe. Lo incontravo ogni volta che tornavo a Praga con Helena, sino alla fine degli anni 80. Poi, come accade sempre, ci perdemmo di vista per un po’. Ma lo ritrovo nel 2003, direttore della Galleria Nazionale di Praga. E a lui mi rivolgo per proporgli una interessante Biennale di Praga, simile alla Biennale di Tirana, che credo sia stata un esempio unico di grande mostra a costo zero o quasi, con la partecipazione di artisti e curatori di tutto il mondo. Knizak ci pensa un po’ e poi accetta la mia proposta ma a condizione che lui potesse curare una grande sezione e controllare il resto. Ma lo sentivo lontano, avvertivo in lui una grande ostilità per l’arte del momento. Nella galleria Nazionale aveva destinato una sala con le sue opere, acquistate non so dove. Ma acquistate dalla Galleria Nazionale. E il panorama che aveva delineato nella più importante galleria del paese era desolante. I suoi collaboratori mi dicevano che era dispotico, repressivo e vendicativo. E invidioso di tutti gli artisti eccellenti del paese e invece amico dei tanti mediocri. Aveva impedito ad alcuni artisti di Praga a lui invisi, di mettere piede nella Galleria Nazionale, come fosse casa sua. Con me non mantenne gli impegni che aveva assunto verbalmente. Mi negò una percentuale degli introiti sugli ingressi che avevamo stabilito in precedenza di dividerci, anche per ammortizzare una parte dei costi che avevo sostenuto. La Biennale fu ugualmente molto bella, la più grande rassegna innovativa nell’Europa centrale e con un bellissimo allestimento, in un paese dove esisteva solo la tradizione della quadreria. Malgrado la sua penosa sezione dove era riuscito a inserire il peggio del peggio. Ma una grande mostra si salva se oltre il 50% è di qualità. E la prima Biennale di Praga fu una mostra con una partecipazione molto intensa e rappresentò una vera apertura nei confronti della grande arte europea.
Ma dopo questa esperienza la nostra collaborazione si concluse nel peggiore dei modi. Con una vicenda giudiziaria. A nostra difesa chiamammo una avvocatessa che ci era stata indicata da una persona di fiducia. Questa avvocatessa ci estorceva denaro affermando che la causa procedeva molto bene, che lei aveva sentito anche i giudici e che saremmo stati risarciti alla grande. Poi scoprimmo che questa avvocatessa non aveva iniziato nessuna pratica. Nel tribunale non esisteva alcun fascicolo del nostro caso. L’avvocatessa (che forse non era nemmeno laureata), poi forse in seguito fu anche arrestata perché era una malavitosa. E noi, con le pive nel sacco, cercammo un’altra location per questa Biennale di Praga che prometteva molto. E mantenne le sue promesse sino a che la sospendemmo per mancanza di una sede adeguata.
Gli esami prima del matrimonio
Il padre di Helena era un famoso geologo conosciuto in tutto il mondo; fu chiamato anche ad insegnare negli Stati Uniti, ma dopo un anno di insegnamento, tutta la famiglia decise di tornare a Praga. Meglio la cortina di ferro anzi ché una città universitaria americana, dissero. Inoltre a Praga c’era un fermento che prometteva qualche cambiamento e questo stimolò la famiglia di mia moglie. Jiri Konta, questo il nome del papà di Helena, mi volle subito conoscere e mi invitò, insieme a sua moglie e a sua figlia, in un tipico ristorante boemo che ricordo ancora, Il buon soldato Svejk (Svejk era un pantagruelico e famosissimo personaggio della letteratura cecoslovacca). Fu una piacevole serata molto conviviale. Il professor Konta era un grande geologo ma anche un uomo di spirito. Ci raccontò della sua esperienza di deportato a Mauthausen, pur non essendo ebreo ma solo antinazista e dove riuscì a sopravvivere grazie alla sua conoscenza delle lingue, a cui talvolta i guardiani del lager dovevano ricorrere come interprete. Grazie a ciò riuscì a sopravvivere. Ma all’uscita di Mauthausen, lui alto un metro e novanta, pesava cinquanta chili. Uno scheletro ambulante. Ma verso la fine della cena, quando il professor Konta mi chiese quali erano le mie risorse e il mio conto in banca, rimasi di stucco. Non ci avevo mai pensato. Raccontai qualche frottola, che fu costretto ad ingoiare. Ma in me subentrò il terrore: vivendo io da single alla giornata, non mi ero mai chiesto come avrei potuto mantenere una famiglia. All’epoca a Milano abitavo in un piccolo residence e non avevo nemmeno un appartamento in affitto, che all’epoca era difficilissimo ottenere a causa dell’equo canone che in realtà ti sottraeva la proprietà, per cui tutti i proprietari preferivano avere le case libere. O affitti solo a persone referenziatissime e conosciute. Ma tutto questo Helena lo sapeva e accettò con gioia la scommessa di venire a vivere con me a Milano. Iniziammo le procedure per il matrimonio, che a Praga, specialmente per uno straniero, erano complicate. I miei documenti italiani dovevano essere tradotti ufficialmente e questo, vista la lentezza della burocrazia praghese, ritardò di alcuni mesi tutto il procedimento. Infine, nell’aprile del 1987, tutto sembrava pronto. Mancava solo il mio esame presso la locale polizia, senza il quale non si poteva celebrare il matrimonio. Nell’ufficio di polizia, mentre attendevo il mio turno, vedo uscire un ragazzo di Lecco bestemmiando e quasi piangendo. È la terza volta che sostengo questo esame, mi disse: una volta ho detto che ero comunista e mi hanno bocciato, poi ho detto che ero democristiano e mi hanno bocciato, oggi ho detto che sono apolitico e non voto per nessuno e mi hanno bocciato, non so più cosa fare. A quel punto, io che pensavo che si trattasse di un normale colloquio di routine, incomincio ad essere preoccupato. Mi accoglie una signora che parla un discreto italiano e mi chiede perché volevo sposare Helena Kontova. Ma perché la amo, risposi io. Noi sappiamo che lei frequenta dei dissidenti qui a Praga, perché? Io non frequento dei dissidenti, risposi, ma degli artisti. Ho una rivista d’arte e incontrare artisti fa parte del mio lavoro. In ogni parte del mondo. Cosa pensa del Partito Comunista Italiano? Io sono socialista, risposi e non conosco molto bene le prospettive del PCI in Italia. Comunque la loro aspirazione di andare al potere in Italia, in questo momento, mi sembra prematuro. E cosa pensa del Movimento Sociale Italiano, (il MSI di allora ndr)? Mi sembrano dei goliardi senza futuro. Perché non si trasferisce lei a Praga? Se mi concedete le stesse libertà che ho in Italia, vengo subito. Lei mi sorrise e disse: lei sa che questo non è possibile. Poi mi abbracciò e mi disse: faccio tanti auguri a lei e ad Helena Kontova. Buon matrimonio. Se mi avessero bocciato, come il povero ragazzo di Lecco, cosa avrei potuto fare? Avevamo già fissato la cerimonia in un bellissimo castello, il Roztoky, fuori Praga, e anche la cena in un ristorante al Castello. I nostri testimoni erano Milan Knizak e Jindrich Chalupecky. Ma al matrimonio parteciparono tutti gli artisti dissidenti della città, capeggiati da Jiri Kolar. Da Trevi era arrivata mia sorella Luisa con suo marito. La cena fu bellissima in questo ristorante tipico, vicino allo studio di Kafka. Io pensai che se fosse arrivata la polizia avrebbe potuto arrestare tutta la intellighenzia dissidente. Ma ciò che mi colpì fu che molti artisti, i più importanti della Repubblica Ceca, non si conoscessero personalmente tra di loro. Solo grazie al nostro matrimonio si poterono incontrare e abbracciare. Tanto era il timore dei vigilati speciali, che evitavano incontri con i propri colleghi. Ripeto, solo Kolar e Milan Knizak sembravano non preoccuparsi. Al matrimonio non parteciparono i genitori di Helena, che in quel momento erano in Germania per alcune lezioni del professor Konta all’Università di Amburgo. E che ignoravano che io ed Helena ci stavamo sposando. Quando tornarono a Praga non trovarono più la loro figlia, ma una sua lettera che gli annunciava di essersi sposata e la sua scelta di vivere in Italia. Poco dopo ricevemmo una gentilissima e formale lettera del papà che ci augurava tanta felicità e l’augurio di un prossimo viaggio a Praga per salutarli.
Due giorni dopo il matrimonio abbracciammo tutti, caricammo le poche cose che Helena portava con sé e partimmo per l’Italia. Ma ci aspettava un severo controllo alla dogana, dunque eravamo con il fiato sospeso. Noi portavamo molte opere antimilitariste di Milan Knizak. Collage di carri armati sovietici colpiti da lanci di pietre e da fiori. Tutte queste opere le tenevo in disordine ma ben in vista, sul ripiano del cruscotto posteriore, come se non avessero alcuna importanza per me. I poliziotti della dogana mi guardano con i loro specchi sotto la macchina, sotto i tappetini del posto di guida dove trovano un vecchio biglietto da visita e mi chiedono di chi è. Spiego che si tratta del mio stampatore in Italia. Con un cenno mi dicono di passare. Subito dopo la dogana Helena incomincia a vomitare per l’emozione. Ma ci abbracciammo felici dicendoci: è fatta, andiamo a Milano.
Ma resterò sempre con il dubbio. Come mai, visti i miei contatti con i molti dissidenti, a partire da Havel, nessuno mi ha mai interrogato a Praga? Per molto meno hanno espulso numerosi stranieri. E come mai alla dogana, con le opere antiregime di Milan Knizak in vista, mi hanno chiesto informazioni solo su un innocuo biglietto da visita? Per me resterà sempre un mistero. Ma la mia sensazione è che essendo giornalista, la polizia aveva ricevuto l’ordine di essere tollerante con me. Non vedo altre spiegazioni.
Tornammo spesso a Praga, per salutare i genitori e gli amici artisti. Appena possibile portammo a conoscere ai genitori di Helena nostra figlia Gea, di appena un anno. Al ritorno in Italia passammo per Bratislava per salutare gli artisti Sikora e Mlynarcik, dunque dovevamo attraversare una frontiera diversa dall’entrata. Al controllo doganale ci dicono che Gea non può passare, perché non risultava entrata in Cecoslovacchia. Cosa era successo? Malgrado nostra figlia fosse iscritta sui nostri passaporti, i poliziotti della frontiera austriaca, da dove eravamo entrati, avevano dimenticato di scrivere sul documento che rilasciavano il nome di nostra figlia, che stava in una culla in macchina. A quel punto Helena diventò una tigre, incominciò a gridare e ad insultare i poliziotti, i quali dopo qualche telefonata ci lasciarono entrare in Austria. L’incubo era finito.
PS. Per quanto riguarda la cronologia delle date ha ragione Francesco Bonami, sono un po’ alla Tarantino. Ma mentre scrivo le emozioni si accavallano e hanno il sopravvento sulla memoria della cronologia.
Per scrivere a Giancarlo Politi:
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Grande! Giancarlo Politi, ho appena comprato Amarcord vol. 1