Bonne nouvelle bonne nouvelle! Nouvelle venue nouvelle venue! Recitano e reiterano a mo’ di cantilena le aperture dei giornali che sfilano a schiera all’ingresso della fiera come una filastrocca. Spezzate prima da un mesto “Bonjour Basel”, poi da un lapidario “Au revoir la FIAC, bonjour Paris+!”. Nenia o meno da strillone che sibila le sinapsi, la cosa che conta è che la prima edizione in salsa parigina di Art Basel c’è, ed è bellissima. La tanto attesa Basel Paris, che da queste parti ufficialmente si chiama PARIS+ par Art Basel perché ci manca che i francesi mettano un’altra città prima della loro Paris, ha alzato il sipario temporaneo del Grand Palais Ephèmère su Champ de Mars vista Tour Eiffel fermata Ecole Militaire (la riapertura del Palais è prevista per il 2024). Dopo Basilea, Miami e Hong Kong la regina delle fiere del contemporaneo si prende il centro nord Europa vista Manica, aspettando le mosse di Londra, ancora di gran lunga la prima della classe ma sempre più lenta e impantanata su se stessa. Così mentre sul Tamigi si procrastina, sulla Senna si progettano sedi di gallerie internazionali (prossima Hauser & Wirth), si trasferiscono incanti (vedi la Thinking Italian di Christie’s fresca di record di Boetti o l’asta speciale sul Surrealismo di Sotheby’s con record della Pavonia di Picabia a marzo) e si aprono fiere che sventolano al sole (ci sono oltre 20 gradi in città) degli Champs-Élysées i propri vessilli: rosso, giallo, viola. Come succede ogni giugno sul Reno e ogni dicembre a South Beach. C’è poco da fare, il brand Art Basel è sinonimo di pregio, estrema caratura, elevata fattura. E così è. Selezione serrata, sono solo 156 le gallerie partecipanti (su 650 applicanti) e livello complessivo eccellente. Si tocca con mano il salto di qualità con la più provinciale e a volte patetica -come tanta contemporary alla corte dell’Eliseo- FIAC. Meno “Allons enfants de la Patrie” e sciovinismi vari, più internazionalità e apertura al mondo senza (fortunatamente) scimmiottare l’appena conclusasi Frieze London, ricettacolo di ludiche smanie e luna park per disadattati. Manca ancora una regia complessiva sulla ricerca e coerenza degli stand. O meglio, qualcuno si dà un gran da fare con booth curati e solo show ad hoc per la prima venuta (Applicat-Prazan, Konrad Fischer, Victoria Miro, LGDR, David Kordansky, Mendes Wood, Raffaella Cortese, Xavier Hufkens per citarne alcuni), altri avanti supermercato, dentro la qualunque in stand già per forza di cose (visti i fisiologici esigui spazi) claustrofobici. Ma tant’è, è il primo anno e ci sarà tempo di crescere e migliorare, e magari redistribuire i metri quadri con cognizione di causa (ed esperienza). Intanto le vendite, che sono sempre e solo l’unica cosa che conta, ci sono e ci sono state, importanti e costanti fin dalle primissime battute dell’inaugurazione (19 ottobre, apertura dal 20 al 23), come confermano i galleristi in toto al netto dei laconici “ça va ça va” che liquidano l’aria. Il solo punto, appunto, a sfavore: l’assalto. La vip preview esclusivissima, esclusivissima non è stata e si è rivelata un inferno, come quantità di gente, caos e calore. Top buyer: gli americani (si sente il richiamo di Basel); tantissimi i tedeschi, bene inglesi e italiani. C’è da lavorare ancora tanto sul terreno, sul territorio, sugli animi e gli spasimi dei parigini come fu per la fu FIAC (1974-2021). Bene invece la sobrietà generale della manifestazione. Occhi e riflettori puntati sulle proposte che popolano le pareti, con poche distrazioni collaterali, quasi sempre inutili. Ora, bando alle ciance e via in silenzio negli stand, tra i corridoi e le vetrate dell’Ephèmère. Di seguito i pezzi più importanti trovati in fiera.
Matisse, Nu au chale vert, 1921-22 (Acquavella) – 45 milioni di dollari
Robert Motherwell, Je t’aime N°2, 1955 (PACE) – 6,5 milioni di euro
Milton Avery, Dark Mountain, 1958 (Xavier Hufkens) – 4,6 milioni di euro
Lucio Fontana, La Fine di Dio, 1963 (Hauser & Wirth) – 25 milioni di euro
Alice Neel, Sue Seely, Nude, 1943 (David Zwirner) – 3 milioni di euro
Luc Tuymans, The Stage, 2020 (ZENO X Gallery) – 2 milioni di euro
Alexandre Calder, Black disc with flag, 1939 (LGDR) – 12 milioni di euro
George Mathieu, Hommage heretique, 1951 + Jacques de Mailly, 1958 (Applicat-Prazan) – 1/1,5 milioni di euro
Jean Helion, Composizione costruttivista, 1930-31 (Le Minotaure) – 800 mila euro
Pablo Picasso, Femme au beret rouge à pompon, 1937 (Acquavella) – 45 milioni di dollari
Helen Frankenthaler, Harvest II, 1975 (Gagosian) – 3,8 milioni di dollari
Pablo Picasso, Le déjeuner sur l’herbe, d’apres Manet, 1961 (Nahmad) – 14 milioni di euro
Kehinde Wiley, Christian Martyr Tarcisius, 2022 (Templon) – 800 mila euro
Francis Bacon, Study for portrait of John Edward, 1986 (Acquavella) – 22,5 milioni di dollari
Sigmar Polke, Katastrophentheorie IV, 1983 (Thaddaeus Ropac) + il dialogo sintetico e capovolto tra Mueck e Baselitz – 4,7 milioni di euro il Polke
Laure Provost, A sign of God, 2021 (Natalie Obadia)
Solo show di Hilary Pecis (David Kordansky) – 90-150 mila dollari
Il richiamo dell’eco tenue di Arruda, la violenza equilibrata di Guglielmo Castelli (Mendes Wood)
Il pulsare porpora come monito all’esterno di Alice Neel, scoprire poco a poco le intimità sospese della Woodman e la cruda materia di Celia Paul (Victoria Miro)