Quando a Genova, Pieter Paul Rubens era uno di noi. In vista del Natale, vi regaliamo qualche spunto per osservare il passato in ottica contemporanea
Stando alla nostra preparatissima guida, pare che Pieter Paul Rubens – tornato in patria dopo il suo soggiorno italiano – esortasse gli architetti di Anversa nel copiare i palazzi genovesi, perché i più belli in assoluto. Belli, e pure molto comodi.
Prendere parte a una visita guidata fa anche a voi l’effetto “classe in gita”? A noi sì. Poi, come in ogni classe ben assortita, nel nostro gruppo non manca nemmeno l’elemento fondamentale: “l’inquisitore”. Soggetto altrimenti noto col nome di “generatore compulsivo di domande che, sistematicamente, ne ha in punta di lingua una ferale a tema”. Tipo questa: «ma gli architetti lo hanno ascoltato?». L’interrogativo è pure pertinente, dopotutto mica siamo un manipolo di imberbi. Sufficientemente catchy per scatenare “l’effetto branco”, quel magico momento in cui tutto il gruppo fa sua la domanda (anzi, alla fine uno pensa sempre “perché non m’è venuta a me?”), anelando una risposta. Che nel brusio generale latita, rimanendo sospesa con lo stesso virtuosismo di un nominativus pendens. Istanti d’impasse rotti da un suggerimento: per svelare l’arcano segnate le Fiandre come meta del prossimo viaggio.
Avrete capito che siamo stati a Palazzo Ducale, a visitare la mostra Rubens a Genova. Ospiti di uno dei suoi partner, VISITFLANDERS, l’agenzia per il turismo del Governo delle Fiandre. Ciò detto, quello che state leggendo non vuole essere un nuovo articolo dedito a far “pelo e contropelo” – tu chiamale se vuoi “recensioni” – a una mostra ben concepita, ben pensata e che non possiamo non invitarvi a visitare. No, per quello su Artslife abbiamo già dato.
L’intento di queste (poche) righe in realtà è un altro. Con una punta di sana arroganza, prevede di farvi buttare un occhio al di là della qualità tecnica di Rubens, della sensualità della sua paffuta Susanna (altri canoni estetici e altri body shaming) importunata dai vecchioni, o del suo San Sebastiano proto “icona gay” (l’ha detto la guida, non prendetevela con noi).
Al di là di tutto questo, infatti, abbiamo un progetto espositivo che, delineando l’asse Genova-Anversa, definisce un preciso contesto socio-territoriale, attinente a un passato fecondo e felice per entrambe le città. Un passato che progetti espositivi di questa caratura non considerano a tenuta stagna ma, nel momento in cui vanno a condividerlo col pubblico, parte integrante della contemporaneità. Ecco, quest’ultima è la vera traccia fantasma in mostra. Rubens a Genova non è semplicemente la cronistoria magnifica di quello che ha fatto, appunto, Rubens a Genova. È uno stimolo per pensare al presente (che si viva a Genova o in qualsiasi altra capitale), magari provando a immaginare un futuro. Per non dire “signori, abbiamo dato, a posto così”. E tornare a vivere (e sognare) “a impatto zero”.
Con un discorso che sta prendendo una piega pericolosamente boomer (anche se, per questioni anagrafiche, chi scrive può fregiarsi solo del titolo di “aspirante boomer”), qui ci rivolgiamo soprattutto alle nuove generazioni. Perché a Palazzo Ducale si comprende ogni minimo dettaglio di quanto belli fossero i tempi in cui Rubens girava per la Superba, in adorazione dei suoi contenuti artistico-architettonici. Tuttavia, è pur sempre vero che quei contenuti altro non sono che esternazione di un tessuto sociale vivo e attivo. Di scambi economici (fortissimi i genovesi, inviavano cartoni nelle Fiandre per poi commerciare gli arazzi in patria) che marciavano di pari passo ai loro possibili risvolti culturali. Di gente che, come il giovane Pieter Paul, sapeva fare quanto osare, in tempi rispetto a oggi politicamente scorretti su quasi tutta la linea. Storiograficamente parlando però, tutt’altro che “mosci”.