Secondo il report di SWG – commissionato dalla Direzione Generale Cinema Audiovisivo del Ministero della Cultura e basato su un’indagine svolta su un campione di 12.008 individui tra l’1 e il 25 luglio 2022 –, più di un italiano su due (il 60%) non si era ancora recato al cinema nel 2022. La tendenza negativa non sembra destinata a cambiare direzione, e la sala cinematografica, colpita duramente dal sopravvento delle piattaforme streaming prima e dalla pandemia poi – senza dimenticare una produzione nazionale che sembra concentrata a ottenere, film dopo film, i finanziamenti statali necessari a garantire la propria sopravvivenza piuttosto che a realizzare pellicole di qualità in grado di attrarre il pubblico – resiste quasi esclusivamente nei grandi centri urbani, e tra molte difficoltà.
Uno spiraglio di luce in questo panorama piuttosto desolante è rappresentato dai festival cinematografici, che, per una serie di fattori – la durata definita, la fidelizzazione del proprio pubblico, la maggiore capacità di adattamento a cambiamenti improvvisi – soffrono meno la crisi generalizzata che invece non risparmia gli esercenti aperti tutto l’anno. La città di Milano, in questo senso, pur non disponendo di un Festival di vero richiamo internazionale – come possono esserlo la Mostra del Cinema di Venezia, la Festa del Cinema di Roma e il Torino Film Festival – può vantare una schiera di rassegne cittadine che negli anni hanno saputo fare rete, garantendo al pubblico il meglio del cinema d’autore internazionale.
Fra questi, nato ormai più di 40 anni fa, c’è Filmmaker Festival che, dal 1980, si prefigge di “portare il cinema internazionale a Milano e da Milano nel resto del mondo, cercando di restare sempre aperti a nuove collaborazioni, voci e relazioni fra pubblico e sala”. La seconda edizione post-pandemica, andata in scena dal 18 al 28 novembre scorso, piuttosto che giocare al ribasso ha scelto di fare all-in: l’edizione 2022 è stata la più ricca mai realizzata. Ben sei le sale coinvolte: lo storico Arcobaleno, teatro di inaugurazioni e serate conclusive; il recentemente riaperto Arlecchino; la Cineteca Milano MIC, la Sala Gregorianum ed infine l’Università degli Studi di Milano, dove si è svolto Filmmaker Expanded, sezione interamente dedicata alla Virtual Reality. Oltre al Concorso Internazionale e Prospettive, capitolo dedicato ai registi emergenti, il festival ha proposto: un segmento per le pellicole Fuori Concorso; Teatro Sconfinato, pensato per le contaminazioni tra cinema e teatro; Fuori formato: Mark Rappaport, rassegna di film anticonformistici realizzati dal regista newyorchese tra gli anni ’70 e ’80; Filmmaker Moderns, incentrato sugli esperimenti filmici più spinti. Filmmaker 2022 ha infine portato a Milano due giganti del cinema europeo: l’austriaca Ruth Beckermann, la cui intera filmografia è stata proiettata lungo gli undici giorni del festival, e il leggendario regista ungherese Béla Tarr, la cui presenza ha comportato il sold-out per la proiezione del suo Werckmeister Harmóniák (2000).
Tra le undici pellicole del Concorso Internazionale – in cui ha trionfato il colossale Nuit Obscure – Feuillets sauvage (2022, quattro ore e un quarto di durata) del francese Sylvain George –, ha catturato la nostra attenzione Balkanica (2022) di Marianna Schivardi. Autrice di videoclip e documentari come Il Grande Fardello (2004), parodia del reality show ambientata nel carcere di San Vittore e 69 Bites (2008), realizzato dietro le quinte di un film pornografico, oltre che docente di Regia alla Nuova Accademia Belle Arti (Naba) di Milano, la regista bresciana ha in questo caso scelto di fare i conti con il proprio passato, che, appena trentenne, l’aveva portata a indagare le storie che si celano dietro gli avvenimenti accaduti in area balcanica negli anni ’90 del Novecento.
La abbiamo rivolto qualche domanda a seguito della proiezione di Balkanica al cinema Arlecchino.
Come ha avuto inizio la storia di Balkanica? Da regista, qual è il suo rapporto con i territori dell’ex Jugoslavia in cui è ambientata la narrazione?
Il film è una somma delle esperienze ma soprattutto degli archivi miei e di Kristoph Tassin, filmmaker che si trovava a Sarajevo durante l’assedio serbo nel 1994. Inoltre c’è il contributo di Massimo Sciacca, autore delle fotografie che si vedono a più riprese lungo la pellicola.
Mi sono recata in quei territori per la prima volta nel 2001, quando per un progetto coordinato dall’ONU mi trovai a vivere per due mesi all’interno di un’enclave serba in Kosovo. Fu lì che iniziai a raccogliere moltissimo materiale grazie a una videocamera amatoriale. Al mio ritorno in Italia iniziai tuttavia a chiedermi quale potesse essere il senso delle tante immagini che avevo raccolto in quel luogo. Non trovando una risposta, finii per archiviarle in alcuni hard-disk. Solamente nel 2009, avendo conosciuto Kristoph e dopo aver vinto un bando, ho ripreso in mano quel materiale e ho deciso di tornare, questa volta con una piccola troupe, ripercorrendo i luoghi e gli incontri fatti nei diversi viaggi compiuti.
Il film tuttavia non si sofferma tanto sul racconto o sull’analisi della guerra, mettendo invece al centro il ruolo delle immagini, il rapporto che instauriamo con esse, l’accumulo che ne facciamo, la loro capacità di costruire una memoria. Che valore hanno oggi le immagini?
Non c’è sicuramente una risposta univoca a questa domanda. La domanda da porsi forse sarebbe: che rapporto abbiamo con le immagini? Penso che tutti oggi dovremmo essere educati ad avere uno sguardo critico. La nostra continua sovraesposizione a immagini di ogni tipo, paradossalmente, non ha portato a una maggiore capacità di recepire narrazioni, se mai il contrario. Basta pensare alla complessità che caratterizzava il cinema italiano negli anni del dopoguerra: nonostante la maggior parte del pubblico in sala avesse solo la licenza elementare e non fosse esposta – come lo siamo oggi – a un continuo flusso mediatico di immagini, i film erano compresi ed apprezzati da larga parte della popolazione. Questo fa capire che oggi Il nostro rapporto con le immagini ha bisogno di mettersi in discussione.
Un’operazione che ritengo molto interessante in questo momento storico da un punto di vista cinematografico è comporre un tipo di narrazione non descrittiva ma evocativa, in grado di far percepire al pubblico un determinato messaggio o stato d’animo senza necessariamente palesarlo.
La memoria è un’altra tematica importante nel tuo documentario. Qual è il tuo rapporto con i ricordi, soprattutto con quelli impressi su pellicola fotografica?
Nel mio film la memoria è più che altro un espediente per ragionare sulla produzione di immagini. Siamo convinti che memoria voglia dire accumulo, personalmente credo che anche dimenticare, in alcuni casi, abbia un suo valore intrinseco pari, e in alcuni casi superiore, al ricordo. Io stessa credevo che l’atto di documentare avesse un rapporto del tutto risolto con la costruzione di una memoria, ma con Balkanica questa relazione viene messa fortemente in discussione.
Pensi che la condizione in cui si trovano i filmmaker che incontri a Sarajevo – costretti per penuria di mezzi a dover decidere se cancellare quanto registrato in precedenza per dar spazio a nuove immagini – abbia qualcosa da insegnare a chi oggi si cimenta nella lavorazione delle immagini? O ritieni che maggiori possibilità tecniche equivalgano sempre a un risultato qualitativamente superiore?
Dal punto di vista della pura documentazione, bisogna tenere conto dell’enorme valore che l’odierna accessibilità ai mezzi di ripresa video e fotografica può avere per chi vuole denunciare un fatto specifico: se ci dovessimo affidare ai soli mezzi professionali, molte violenze e crimini rimarrebbero ignoti. Detto questo, un parziale ritorno a mezzi analogici è già in atto: porre dei limiti alla possibilità di accumulare immagini all’infinito porta a guardare alle stesse con maggiore attenzione e cura. Da insegnante penso che sarebbe un ottimo esercizio per uno studente di cinema, ma non solo, imporsi di lavorare con mezzi ridotti, in questo caso con uno scarso numero di scatti a disposizione.
Quali sensazioni hai provato nel ripercorrere i luoghi già visitati anni prima? Cosa ti ha convinta a tornare, questa volta dotata di una troupe organizzata, considerato il rischio di “vampirizzare” (ovvero sfruttare per scopi personali) determinate situazioni ad alta complessità come quelle relative alle ex Repubbliche Balcaniche?
Credo che questo rischio accomuni un po’ tutti i documentaristi. Alla base di una nuova produzione c’è sempre una legittima esigenza creativa, al tempo stesso difficilmente mancherà un aspetto più auto-referenziale, di mera vanità. Per me l’aspetto etico è centrale: mi è capitato di fare un film dentro un carcere, o comunque in situazioni “estreme”. Il mio obiettivo è che i personaggi dei miei documentari si lascino osservare ma al tempo stesso, di rimando, “osservino” il pubblico in sala. Sul finire di Balkanica, Selma, uno dei personaggi, dichiara il proprio totale disinteresse verso il pubblico che vedrà il film di cui è protagonista: è una presa di posizione, per me un modo di ridefinire gli equilibri tra chi si mostra e chi guarda.
Quando ho iniziato a lavorare con Sergej Grguric – il produttore creativo croato con cui ho collaborato negli ultimi anni per dare al film la sua forma finale e per scrivere il voice-over che fa da filo rosso alla narrazione –, lui mi disse che per la prima volta avevo reso “sexy” la sua gente, intendendo che il mio film restituiva dignità alle popolazioni balcaniche e ai tragici avvenimenti bellici da loro vissuti verso la fine del secolo scorso. Come racconta un regista di Belgrado che appare del film, “la città, da quando la guerra è finita, non è più fotogenica, non c’è più nulla di interessante da filmare”. Una considerazione a tratti cinica ma densa di verità.
Cosa ti lascia questa esperienza?
Sicuramente aver chiuso il progetto dopo tanti anni e averlo mostrato al pubblico mi ha dato molta soddisfazione. In particolare, il montaggio, che ho realizzato in completa autonomia prima nel 2009 e poi di nuovo a partire dal 2018, è stato una vera e propria Odissea: è stato proprio il montaggio del film il mio ultimo “viaggio” nei Balcani, sicuramente il più faticoso.
Quale vita ti auguri avrà questo film?
La casa di produzione del film, Kinedimorae, lo sta proponendo ai vari festival cinematografici legati al documentario, in Italia e all’estero. È un film molto piccolo e molto personale, faccio fatica a dire che percorso farà, ma spero di rivederlo presto proposto anche in altri contesti.
Incrociamo le dita!