A Milano nel cuore dell’architettura Liberty a Porta Venezia, nel sottoscala di una palazzina (via Melzo 34) del Novecento, c’è Lucerna, un nuovo spazio – laboratorio espositivo segreto ma non troppo che brilla di intuizioni e progetti informali ed estemporanei a cura di Antonio Gulli e Federico Pepe, l’anomala coppia dell’arte che all’interno di Le Dictateur continuano a sperimentare nuove modalità di concepire mostre relazionali e curatela in bilico tra pubblico e privato. Antonio Gulli risponde alle nostre curiosità in questa intervista.
Come nasce Lucerna e cosa intendi esporre in questo spazio nel cuore liberty della movida di Milano?
«Lucerna nasce da anni di amicizia, dialogo e collaborazione con Federico Pepe. Quando Federico circa un annetto fa ha spostato la sede del suo studio Le Dictateur in via Melzo mi ha chiamato e mi ha fatto vedere la lunga stanza sotterranea in cui hanno luogo i progetti di Lucerna. E mi sono subito innamorato di questo spazio allungato simile a un bunker».
Come intendi comunicare gli eventi? A quale pubblico ti rivolgi?
«Vorremmo comunicarli il meno possibile. In realtà quello che stiamo facendo rispetto a Lucerna non è nemmeno definibile attraverso il termine “comunicazione”, una parola talmente logora e abusata da non poterne nemmeno più di sentirla. Una delle caratteristiche principali di Lucerna sarà proprio quella di non “comunicare”: non abbiamo siti, non abbiamo social network, non mandiamo mail [e non ci sono immagini a uso stampa, ndr]. Semplicemente chiamiamo le persone con cui siamo in contatto diretto o usiamo whatsApp per avvisarle dei nostri progetti. Loro sono liberi di invitare chiunque vogliano. Non è un progetto esclusivo, siamo aperti a tutti. Semplicemente vogliamo che tutto si sappia attraverso una vera vicinanza e un dialogo tra le persone. Anche per questo non esisterà documentazione alcuna dei nostri progetti. Solo chi viene di persona a Lucerna vedrà quello che è stato fatto; gli altri dovranno rinunciarvi. E non c’è nulla di male, non si può avere tutto, anche se la società oggi vuole farcelo credere e le tecnologie ci danno la vaga parvenza che sia così. L’arte è fatta di limiti, è la sua forza, così come la forza delle cose preziose sta nella loro rarità, e non c’è nulla di democratico in quello che facciamo; abbiamo solo doveri nei confronti dell’arte, e penso sia importante ribadire come il concetto dell’arte per tutti sia solo un’illusione (quando va bene) o sia ottenibile solo tramite uno svilimento dell’arte e un abbassamento della stessa al livello di coloro che stanno più in basso all’interno di questo “tutti”».
Hai inaugurato lo spazio ipogeo con il progetto site specific di Flavio Favelli, ma cosa rappresenta o evoca questa mostra?
«Favelli per me è un artista speciale. Non solo perché lo reputo in assoluto uno dei nostri campioni nazionali. È probabilmente l’artista con cui ho lavorato maggiormente, e talvolta ha ripensato gli spazi all’interno dei quali andavo a curare le mie mostre. È quindi qualcosa di più di un artista con cui lavoro, perché in molte situazioni abbiamo lavorato a quattro mani ed è stato una sorta di cocuratore di alcuni miei progetti. Ci tenevo quindi che fosse lui ad aprire Lucerna. E la sua installazione di manifesti di film a luci rosse degli anni ’70 di un cinema a Bologna, non poteva essere più azzeccata, per il modo in cui ci parla di eros, censura, memoria, rimozione…».
Chi finanzia i progetti e le mostre che presenti?
«Federico Pepe. Ma saranno sempre budget ridotti all’osso. Come nella tradizione di Pepe e di Le Dictateur però una parte importante l’avranno le pubblicazioni. Vedrete».
Milano è una eventopoli di consumatori visivi e di performance di vacuità, dove tutti cercano relazioni possibili, in cui l’arte è solo un presupposto d’incontro, come rispondi a questo processo di banalizzazione dell’arte?
«Con Lucerna rispondiamo proprio attraverso una sottrazione dal processo esasperato di ricerca della visibilità. Rischiamo di morire di visibilità, di troppa luce. Per fare in modo che tutto sia visibile e tutto sia comunicabile si è costretti ad appiattire tutto, a ridurre ciò che è complesso in qualcosa di semplice. Solo ciò che è piatto può essere completamente illuminato e in vista. Io invece voglio rimanere legato a un arte fatta di complessità, di lati in ombra, di mistero, di lati difficili da accettare, di ambiguità. La grande arte del passato così come quella di oggi deve essere destabilizzante, altrimenti non è arte. Deve farci male, minare le nostre certezza, farci vedere il mondo in un modo completamente nuovo. Per fare questo Lucerna avrà le caratteristiche di uno studio, lo studio di un curatore, uno spazio a cavallo tra dimensione privata e apertura al pubblico. Un luogo in cui rischiare, in cui presentare cose non necessariamente finite, in cui ospitare oggetti e idee che non hanno cittadinanza nel resto del mondo dell’arte. Non a caso si tratta di uno spazio sotterraneo, perché tutte le cose destabilizzanti accadono sotto terra, l’arte è iniziata nelle caverne probabilmente, ed è ora di abbandonare i rooftop per tornare all’underground».
Qual è la tua mostra ideale?
«Quella in grado di farmi sanguinare».
A quale progetto espositivo stai pensando per gennaio 2023?
«Non comunicheremo in anticipo nessun progetto. Ci prendiamo la libertà di fare quello che vogliamo, quando vogliamo, e anche di cambiare idea all’ultimo secondo».
Cosa significa oggi essere curatore di una mostra o produttore di esperienze relazionali?
«Bella domanda, ma servirebbe un saggio per rispondere forse. Essere un curatore oggi penso significhi tutto e nulla. Il curatore viene visto come un agevolatore, un velocizzatole di processi. Il che è un problema e mi fa pure orrore. Se invece mi chiedi cosa “io penso che debba significare essere un curatore” ti dico che la curatela è la continuazione della critica d’arte con altri mezzi. Credo che anche come curatori si sia qui per problematizzare, per mettere i bastoni tra le ruote, pur rimanendo sempre dei compagni di strada degli artisti».
Gli artisti del presente stanno diventando prevedibili, sei d’accordo?
«Un pò sì. Semplicemente viviamo un momento di grande conformismo, e lo si capisce dal modo in cui siamo ossessionati dai curriculum degli artisti, dalle accademie che hanno fatto, e da come siamo poco interessati alle opere d’arte. Basterebbe tornare alle opere per risolvere tutto. Ma c’è sempre qualcosa di buono la fuori, basta trovarlo; io sto cercando di lavorare sempre più spesso con artisti autodidatti o che non hanno fatto studi d’arte».
Quale consiglio daresti a un giovane che sogna di diventare gallerista e curatore di mostre?
«Non seguire i consigli di nessuno».