Marion Baruch, un’artista globale con una pratica partecipativa ancor prima che tali termini potessero essere pienamente concepiti e compresi. Oltre 60 anni di carriera costellati da diverse pratiche, installazioni e performing arts ma un’unica stella polare: “L’Arte, così sfuggente che quasi non ci si può mettere il dito sopra. Sì, ci sono dei momenti magici in cui si rivela, e improvvisamente uno dice: non ci avrei pensato, ma è proprio questo? E non si sa mai con esattezza. L’arte non si può definire … la magia, come si fa a definirla? In un momento può sembrare ma nel momento seguente non lo è più o viceversa. Se si sapesse cos’è l’arte, mio caro, no, non esisterebbe l’arte, non sarebbe più quello che è, sarebbe un’altra cosa.”
Grazie alla sua profonda interdisciplinarità, l’artista romena ha portato un approccio unico al formalismo, restituendo vita a qualcosa che altrimenti andava perduto, o meglio “sprecato”. I temi cardine della sua poetica sono: la questione del pieno e del vuoto e del rapporto con il proprio corpo e con quello degli altri. È l’inconfondibile abilità – indipendentemente dai materiali e dalle tecniche utilizzate – di creare legami tra le persone, tra i linguaggi e tra le diverse culture, a definirla e rendere il suo lavoro unico e originale.
Ma chi è Marion Baruch (Timișoara, 1929) e come è arrivata in Italia? L’arrivo a Gallarate, nella tradizionalista provincia lombarda dei primi anni ’60, fece sin da subito scandalo. Un’artista che veniva dalla Romania e dal mondo, poco più che trentenne, e la sua villa razionalista, oggi un classico internazionale ma all’inizio canzonata dalla ricca borghesia industriale della zona che preferiva mostrare il proprio status con villoni plateali e rasserenanti. Tutta ferro, vetro e cemento, progettata dall’allora giovanissimo Arch. Carlo Moretti per Marion e il marito Aldo Cuccirelli, noto imprenditore del tessile della città. Una delle peculiarità della sua personalità è sicuramente l’eclettismo ma anche il fatto di essere poliglotta: le diverse lingue che parla – ungherese a casa, tedesco con la tata, rumeno e francese a scuola e italiano per ultima adozione – determinano la sua esplorazione artistica.
Una vita coraggiosa, quella di Marion, iniziata proprio con quelle leggi sempre più antiebraiche che dal 1938, sotto il governo di estrema destra di Goga-Cuzae il successivo governo fascista di Antonescu, la costrinsero a diverse“fughe”. Laprima in campagna, dove con la madre fu accolta in una comunità rumena
E la seconda da Bucarest, costretta ad abbandonare l’Accademia di Belle Arti a causa della forte pressione ricevuta dai gruppi comunisti, verso Israele dove a 24 anni inizia la sua carriera artistica con la prima mostra personale presso il Micra Studio di Tel Avivgrazie alla quale riceve e una borsa di studio per Roma, dove si trasferisce nel 1954. Dal 1994 al 2011 vive a Parigi per tornare infine definitivamente in Italia, dove attualmente vive.
L’arte come un bisogno che viene da dentro, una necessità accolta e trasportata in gesto dentro l’immensa massa di creazione della società. I materiali di cui si serve Marion non sono mai creati da lei ma vengono presi, rubati, prelevati dal flusso di produzione compulsiva in cui ancora oggi viviamo, una materia, uno scarto che arriva.
Dalla fine degli anni ‘60 agli inizi degli anni ‘70, l’artista diviene nota sulla scena contemporanea a partire dalle prime forme geometriche cucite e poi indossate tra le vie modaiole di Milano. Una lunga riflessione sul movimento, sul corpo, sull’identità e sulla questione femminile che la porta alla creazione di forme, dalle più classiche alle più astratte, che rispondono all’arte concettuale o astratta dei primi anni, vicine anche al minimalismo attraverso il gioco sulle forme e il colore, sul pieno e il vuoto.
Il decennio successivo sarà, invece, dedicato a una riscrittura della storia dell’arte, una riflessione sulla sua natura e commercializzazione ma anche sulla relazione tra uomo e tecnologia. L’arte e il business vanno di pari passo? L’arte è un prodotto di consumo come un altro? Queste sono alcune delle domande che ci pone attraverso i suoi lavori.
Il filo conduttore rimane il materiale tessile e a cavallo degli anni 2000 si reinventa nuovamente. Comincia qui la raccolta di scarti di tessuto che la portano a un’ampia riflessione sul consumo e sul tema ambientale rispetto all’industria tessile. Colleziona tessuti, li lavora, stende, appende e assembla senza mai modificarli, disegna nuove forme che danno significato all’assenza. Giunge, infine, a creare dei “contenitori di vita”, dove l’arte diventa totalmente autonoma, libera dal rapporto con il corpo e indipendente dal contatto con il muro.