La mostra Art and Life, 1918 – 1955, che espone anche opere recentemente restaurate, è in corso alla Städtische Galerie im Lenbachhaus a Monaco di Baviera fino al 16 aprile 2023
Una grande retrospettiva sulla pittura tedesca fra il primo e il secondo dopoguerra ripercorre la storia delle avanguardie che fiorirono fra Monaco e Berlino, sullo sfondo della fragile democrazia di Weimar, del nazismo, e dei primi anni della democrazia federale.
La società tedesca che visse il periodo fra il 1918 e il 1955 fu scossa da profondi e traumatici eventi sociali e politici che si inserirono nel più ampio quadro di un’Europa che non era riuscita a costruire una pace stabile dopo la tragedia della Grande Guerra. La mostra Art and Life, 1918 – 1955, a cura di Karin Althaus, Sarah Bock, Lisa Kern e Melanie Wittchow, si concentra sulle vite e sui destini degli artisti in tre fasi cruciali del novecento tedesco: la Repubblica di Weimar, il Nazionalsocialismo e i primi anni della Repubblica Federale del secondo dopoguerra. Tre momenti che hanno però avuto ripercussioni anche sul resto dell’Europa. Lungo la narrazione espositiva emergono in filigrana anche le figure degli artisti, le cui opere raccontano di carriere riuscite, interrotte o spezzate, vite di resistenza e adattamento, storie di persecuzioni, esilio e assassinio; in quest’ottica la mostra vuole anche essere un omaggio a quegli artisti deportati e assassinati dal nazismo: Otto Freundlich, Marie Heilbronner, Moissey Kogan, Rudolf Levy, Maria Luiko e Charlotte Salomon.
L’arco temporale della mostra si apre con il primissimo dopoguerra quando la Germania corse il rischio della guerra civile fra conservatori e socialisti, e la situazione fu normalizzata soltanto con la forza e l’assassinio, nel gennaio del ’19, di due dei più importanti esponenti della sinistra, Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht. La Repubblica visse comunque minata da una disastrosa situazione interna: i reduci, la fame, la disoccupazione, gli scontri sociali, gli scioperi, e i due falliti tentativi di colpo di Stato, il primo nel 1920, l’altro nel 1924, per mano di un certo Adolf Hitler, di cui purtroppo la Germania e il mondo risentiranno parlare. Eppure, in questo clima così difficile, il mondo dell’arte poté godere di un’ampia libertà e ciò permise la nascita di numerosi movimenti artistici d’avanguardia, che a loro volta si inserirono in un clima di politiche progressiste di gestione museale, buona educazione scolastica in fatto di arte e fiorente dibattito critico.
Accanto all’Espressionismo, il movimento più importante (anche perché di matrice interamente tedesca) fu la Nuova Oggettività, che seppe raccontare con acutezza e accuratezza la durissima vita quotidiana della Germania del primo dopoguerra, stretta fra le tensioni sociali e circondata da scorci urbani dominati dal razionalismo dell’architettura Bauhaus. Era quello il fondale su cui si muove una società nuova, caratterizzata dall’emergere di una figura femminile particolarmente emancipata, almeno nelle grandi città. L’inserimento nel mondo del lavoro durante gli anni della guerra per sostituire gli uomini al fronte, l’acquisito diritto di voto riconosciuto loro dalla Costituzione repubblicana, sono stati gli elementi che hanno portato nelle donne una nuova consapevolezza, utilizzata prepotentemente per ritagliarsi ulteriori spazi nella vita sociale; ne è un valido esempio la Sonja (1928) di Christian Schad, che sembra una prostituta parigina di Brassaï, dall’aspetto androgino inguainato in un abito nero e la lunga sigaretta con il bocchino stretta fra le dita; nella sua non sfolgorante, dimessa bellezza, conserva una sua pur tenue dignità, lontana dall’abbrutimento delle donne di strada ritratte da Otto Dix. Infatti, solitamente, i pittori di Weimar dispiegano uno sguardo estremamente critico nei confronti di quel disumanizzato appetito sessuale che derivava da una profonda angoscia, e che vedeva le donne quali oggetti di un desiderio perverso. Al suo ideale fianco, la Dame im Fohlenmantel (1930) di Erwin Steiner, raffinata borghese dall’aura intellettuale, che nella luterana sobrietà nasconde una travolgente forza d’animo.
L’accostamento di opere fra loro lontane diversi anni aiuta a capire l’evoluzione stilistica e concettuale degli artisti, come nel caso di Georg Schrimpf: se nel 1918, in pieno smarrimento sociale e morale, raffigurava appunto l’angoscia del cittadino medio (nel quale la correttezza dell’abito contrasta con l’ambiguità dello sguardo), nel 1929, quando il malessere è ormai una condizione conclamata, vagheggia un impossibile ritorno a una dimensione umana della realtà, ma l’idillio campestre è ormai irraggiungibile per una società alienata dalle macchine e afflitta da povertà, disoccupazione, tensioni sociali.
Nonostante il clima artistico di Weimar fosse assai dinamico, bisogna però riconoscere che le aperture verso le realtà straniere, soprattutto francesi, erano limitate; una situazione di “nazionalismo culturale” che affondava le sue radici nel secondo Ottocento, a seguito della guerra franco-prussiana. Ma quella controversa eppure vibrante esperienza politica e sociale che fu la Repubblica di Weimar, all’inizio degli anni Trenta entrò in agonia, minacciata dalle mire dittatoriali di Hitler: i disordini e gli scontri, creati e alimentati ad arte dal partito nazista, minarono alla base la stabilità sociale faticosamente realizzata dai democratici. Un passaggio che il mondo dell’arte documentò in maniera inequivocabile, e che la mostra racconta con precisione; quello che era stato sinora un mondo libero di esprimersi, si trovò ben presto a fare i conti con l’antimodernismo e il nazionalismo esasperato.
L’arte, per l’ennesima volta, diventa suo malgrado uno strumento per lanciare chiari messaggi politici, per reprimere il dissenso e uniformare la società ai criteri della “razza ariana” e al conformismo dell’allineamento ai valori del nazionalsocialismo. Il falso calore domestico dei ritratti familiari gronda appunto retorica e fanatismo, declinati secondo i canoni di un gusto ottocentesco piccolo borghese (come di fatto Hitler era), la famiglia come incubatore di nuovi uomini, ovverosia nuovi soldati. È evidente che la scena artistica tedesca conosca una fase di profondo regresso durante gli anni della dittatura, costretta ad adeguarsi ai folli principi estetici di Hitler, che aveva già espressi nelle pagine del Mein Kampf; lo “sterminio” delle opere d’arte trova sciagurata applicazione nei vari roghi pubblici della cosiddetta “arte degenerata”. Un concetto introdotto per isolare sempre di più ebrei e socialisti, che il nazismo considera nemici del popolo tedesco, anche nel mondo dell’arte.
Per quanto intrisa dei gravi problemi della vita quotidiana, l’arte tedesca fra il 1918 e la metà degli anni Trenta era vibrante ed autentica, capace di comunicare emozioni; dopo l’ascesa di Hitler al potere, divenne una sorta di cimitero, intriso di razzismo e conformismo. A quest’arte di regime scelsero di aderire non soltanto le nuove generazioni di artisti, ma anche diversi “reduci” dalle esperienze della Repubblica di Weimar, e fra questi ci fu Hermann Tiebert, che dopo una lunga militanza nella Nuova Oggettività, entrò nei ranghi dell’arte nazista. Se nel 1923 si ritraeva insieme alla moglie in uno struggente dipinto (Meine Frau und ich) dalla profonda carica umana che esprimeva l’insicurezza per il futuro, dieci anni più tardi, ossequioso alle fissazioni hitleriane su razza e tradizioni, ritraeva un anziano ma sereno contadino in costume tipico, e nel 1938 immortala le figlie appartenenti alla Hitlerjugend.
Il percorso della mostra prosegue con criterio cronologico, e la sezione finale si apre sulla Germania del secondo dopoguerra; iconico, Trümmer (1945), di Herbert Ploberger; le macerie che danno il titolo al quadro sono, presumibilmente, quelle di un palazzo che, distruggendosi sotto i bombardamenti, crolla al suolo travolgendo anche la vita sottostante; macerie sotto le quali si intuisce la presenza di cadaveri, macerie che per estensione metaforica rappresentano l’Europa (per non dire l’intero pianeta) prostrato dalla tragedia della Seconda Guerra Mondiale.
L’astrattismo di Fritz Winter (che in gioventù aveva frequentato Klee e Kandinskij), con i suoi colori cupi riflette lo stato d’animo di un’Europa in lutto, un po’ sulla scia di Hans Hartung, di cui fu molto amico. Nei suoi grovigli di pennellate ampie e scure si riverberano tutti i fili spinati, i muri e le cortine che hanno diviso il Vecchio Continente e non solo. Pur sviluppando i suoi lavori più intensi in questo difficile contesto, Winter fu uno dei principali pionieri dell’astrazione europea, dall’interno del gruppo ZEN-49 da lui fondato a Monaco di Baviera appunto nel 1949.
Si arriva all’ultima opera della mostra con la consapevolezza che l’incertezza dell’Europa dell’immediato dopoguerra non è diversa da quella che vive oggi un’Europa sulla carta unita e concorde con i propri vicini, in realtà dilaniata da antisemitismo, tensioni etniche e sociali, e persino da un conflitto (reminiscenza della Guerra Fredda) che ne lambisce i confini. Per tutte queste ragioni, la mostra della Lenbachhaus è profondamente attuale, e dimostra l’importanza dei musei come luoghi della conservazione dell’arte del passato, utile per salutari confronti con il presente.
La mostra è corredata da un ampio catalogo con i saggi dei curatori e le biografie degli artisti.
https://www.lenbachhaus.de/en