È in corso ancora fino al 19 marzo la mostra “Artemisia Gentileschi a Napoli” alle Gallerie d’Italia – Napoli, museo di Intesa Sanpaolo
Prima donna ad essere ammessa alla prestigiosa Accademia delle Arti e del Disegno, la sua attività artistica è stata ampiamente influenzata da Michelangelo Merisi (1571-1610), detto il Caravaggio, e dal suo realismo drammatico. Esempio di volontà e determinazione femminile, la sua vita non è stata facile: la prematura scomparsa della madre, un contesto sociale ostile e un abuso sessuale. Nonostante tutto è riuscita ad emergere attraverso l’indiscutibile talento artistico e il coraggio, e a trasmettere mediante le protagoniste dei suoi quadri, il desiderio di riscatto e di affermazione all’interno della società. I suoi dipinti hanno segnato così profondamente la storia dell’arte italiana che risuonano ancora prepotentemente nel mondo contemporaneo: il suo nome è Artemisia Gentileschi (1593-1653).
Nel corso degli anni sono state varie le iniziative culturali che hanno omaggiato la pittrice romana. Un ulteriore contributo è quello proposto dalle Gallerie d’Italia – Napoli, museo di Intesa Sanpaolo, che all’interno dei propri spazi, in via Toledo 177/178, a Napoli, ha allestito una mostra incentrata sul periodo che Artemisia Gentileschi trascorse nel capoluogo campano tra il 1630 e il 1654, interrotto da una parentesi londinese tra la primavera del 1638 e il 1640. E’ un percorso espositivo curato da Antonio Ernesto Denunzio e Giuseppe Porzio, con la consulenza speciale di Gabriele Finaldi. La mostra sarà aperta al pubblico fino al 19 marzo 2023.
TRA ROMA, NAPOLI E LA SPAGNA
Ad accogliere il pubblico è la Santa Caterina d’Alessandria acquisita nel 2018 dalla National Gallery di Londra, dove la pittrice si autoritrae nelle vesti della martire egiziana. Fulcro della prima parte dell’esposizione è la parziale ricomposizione del ciclo di tele con Cristo e i dodici apostoli, commissionata a Roma per la certosa di Siviglia da Fernando Afàn de Ribera III, duca di Alcala’, dal 1629 viceré di Napoli. Tale impresa costituisce l’antefatto per il trasferimento meridionale dell’artista e allo stesso tempo un saggio fondamentale del dialogo di quest’ultima con gli artisti suoi contemporanei. La serie realizzata tra il 1625 e il 1626 da alcuni dei più insigni pittori allora di stanza in Italia è oggi dispersa, e solo di recente è stata riconosciuta nella sua interezza a partire da due sequenze di copie conservate in Spagna. Essa aveva il suo centro nelle effigie di Gesù che benedice i fanciulli, dipinto da Artemisia nel 1626.
La tela visibile in mostra, Cristo benedice i fanciulli (Sinite parvulos), è affiancata per la prima volta da alcune delle figure di apostoli che l’accompagnavano in origine, eseguite da maestri che in quegli anni occupavano una posizione fondamentale nelle congiunture artistiche fra Roma e Napoli, come San Giacomo Minore di Giovanni Baglione (1573-163), il Sant’Andrea di Giovanni Battista Caracciolo (Battistello) (1578-1635) e il San Giacomo Maggiore di Guido Reni (1575-1642).
Alla tela di Artemisia è accostata anche un’altra suggestiva immagine sacra, un Cristo e la samaritana al pozzo di Orazio Gentileschi (1563-1639), che mette in scena il confronto padre-figlia. L’opera proviene dalle collezioni reali spagnole e in passato è stata attribuita a Massimo Stanzione (1585-1656).
DOCUMENTI PER ARTEMISIA A NAPOLI
Un ulteriore contributo alla ricostruzione della vita pubblica e privata della pittrice romana a Napoli arriva dai documenti presenti in mostra che attestano la presenza dell’artista in città, come l’individuazione della sua ultima residenza napoletana e la pubblicazione di due certificati: un “viglietto” (avviso o mandato di vario genere, prodotto o ricevuto dalla segreteria vicereale) del 1637 e conservato presso l’Archivio di Stato di Napoli, che accompagna una inedita supplica dell’artista al conte di Monterrey per bloccare il pagamento di 200 ducati a un suo fratello: quest’ultimo aveva venduto senza autorizzazione una Maddalena del padre Orazio destinata in dono allo stesso vicerè.
Inoltre, è visibile il documento che attesta il processo matrimoniale presso l’Archivio storico diocesano di Napoli, ovvero il fascicolo contenente l’esame preliminare degli sposi, dei relativi testimoni e i certificati accessori, stilato il 9 febbraio 1649 per le nozze della figlia di Artemisia Gentileschi, Prudenzia Palmira e Antonio De Napoli, formalizzato il giorno stesso dal parroco della chiesa di Santa Maria di Ognibene.
Questo certificato regolarizza il lungo concubinato degli sposi e la nascita del loro figlio Biagio al di fuori del matrimonio, il 3 febbraio. Tale situazione di urgenza, che sembra dettata soprattutto dallo stato di infermità forse preoccupante di Prudenzia, spiega la stesura corsiva e per larghi tratti mal decifrabile del documento, redatto in casa della sposa, anziché della curia.
ARTEMISIA: IMMAGINE, MITO E STORIA
Sulla scorta della Santa Caterina di Londra, il percorso espositivo prosegue offrendo una triplice prospettiva, più o meno idealizzata, dell’iconografia di Artemisia.
La serie si apre con l’Autoritratto proveniente dal Palazzo Barberini di Roma, rappresentazione del proprio status e della propria eccellenza artistica riconosciutale con l’ammissione nel 1616, alla prestigiosa Accademia delle Arti e del Disegno di Firenze. Proprio al soggiorno fiorentino è da ricondurre l’opera Clio musa della Storia, della Fondazione Pisa del 1632, probabile commissione proveniente dall’entourage della famiglia dei Medici. Attraverso questo dipinto l’artista ambiva non solo a tenere vivo il proprio ricordo presso la corte medicea, ma rivendicava la propria posizione nella Storia. La sezione si conclude con la stampa di Jérôme David (1605-1670), tratta da un perduto autoritratto dell’artista e incisa dopo il 1626, data di fondazione dell’Accademia letteraria romana dei Desiosi, di cui Artemisia faceva parte.
Questa incisione ha contribuito a diffondere il mito della pittrice, declinandone la fisionomia attraverso i tratti tipici del genio (lo sguardo fiero e la capigliatura ribelle), confermata dalla didascalia latina del ritratto, desunta da Plinio il Vecchio (23-79 d.C.) che si riferiva al pittore Zeusi (450-394 a.C.): “Ecco il miracolo della pittura, più facile da invidiare che da imitare”.
LE GRANDI COMMISSIONI
Nella prima fase del suo soggiorno napoletano, Artemisia è strettamente legata alla corte vicereale, cui deve anche i suoi primi prestigiosi incarichi.
Nell’exhibit si ripercorre il capitolo delle rare commissioni pubbliche, dall’Annunciazione del Museo e Real Bosco di Capodimonte, che in virtù della data 1630 e pur in assenza di informazioni sulla sua originaria destinazione, fissa il primo termine certo del percorso napoletano della pittrice. Le altre due tele realizzate tra il 1635 e il 1637, sono ancora una volta nell’orbita della committenza vicereale: San Gennaro e i compagni gettati nell’anfiteatro ammansiscono le belve e San Procolo e Santa Nicea, per il coro della cattedrale di Pozzuoli.
Queste due tele appartengono ad un ciclo di raffigurazioni della vita di Cristo e di Maria e dei fondatori della Chiesa di Pozzuoli, fatte eseguire dai massimi artisti attivi in quel tempo a Napoli, da Giovanni Lanfranco (1582-1647), Jusepe de Ribera (1591-1652) a Massimo Stanzione, dal vescovo agostiniano Martin de Leòn Y Càrdenas, promotore tra il 1631 e il 1650 di una vera e propria rifondazione della cattedrale.
Artemisia fu coinvolta anche in un’altra commissione di grande prestigio, la serie con le Storie del Battista, probabilmente commissionata alla pittrice, a Stanzione e a Paolo Finoglio (1590-1645) per conto del re Filippo IV di Spagna dal conte di Monterrey, viceré di Napoli, e destinate al palazzo madrileno del Buen Retiro. Per questa serie dipinse la tela con la Nascita di San Giovanni Battista, oggi al Museo del Prado, di cui è esposta una replica coeva, realizzata e conservata in origine a Madrid.
SANTE, VERGINI E MARTIRI
Osservando la resa delle stoffe seriche e cangianti della Santa Caterina d’Alessandria del Nationalmuseum di Stoccolma, Artemisia si rivela davvero figlia ed erede “del più meraviglioso sarto e tessitore che abbia mai lavorato tra i pittori”, come Roberto Longhi (1890-1970) definì Orazio Gentileschi.
A Napoli l’artista è una delle principali interpreti del fortunato filone iconografico delle mezze figure femminili, adattate a sante e martiri grazie a pochi contributi accessori e destinate al collezionismo privato. Le diverse variazioni sul tema offerte da Artemisia sono messe a confronto con esempi direttamente collegati ai modelli della pittrice, come nel caso della tela Martirio di Santa Caterina d’Alessandria di Paolo Finoglio, frammento di una composizione maggiore, proveniente dal Museo Cristiano di Esztergom, in Ungheria. In altri casi il raffronto è con testimonianze rappresentative dello stesso filone, dominato dalle cerchie di Ribera e soprattutto di Stanzione, i due maestri, cioè, che orientarono gli indirizzi della pittura locale nel secondo quarto del Seicento, spesso contaminando i propri linguaggi.
I PICCOLI FORMATI TRA SACRO E PROFANO
Rispetto a quanto ricordato nelle fonti, ben poco è rimasta della produzione sacra di destinazione privata realizzata da Artemisia nei suoi anni napoletani. In una lettera del 1650 al principe Antonio Ruffo, aristocratico messinese, uno dei suoi ultimi importanti committenti, la pittrice promette di mostrargli presto, preannunciandogli altre opere di formato ridotto, una “Madonina in piccolo”, che non dovette essere troppo diversa dal ramo di soggetto mariano del Patrimonio Nacional di Madrid, visibile in mostra.
Notevole per qualità e contenuto è il dipinto Sacra Famiglia con Sant’Anna e San Gioacchino, della vicina chiesa di Santa Maria Egiziaca a Pizzofalcone di Onofrio Palumbo (1606-1656), collaboratore documentato di Artemisia, anch’essa legata ad un pagamento del 1650. L’opera offre una idea molto precisa, pur nelle dimensioni di una pala d’altare, di come lo stile del pittore si incroci con quello della Gentileschi: dai tratti fisionomici alle piaghe dei panneggi, fino alle scelte cromatiche.
Il confronto appare molto utile anche per il dibattito su Artemisia e la sua bottega, dal momento che siamo alla stessa altezza cronologica di due opere in mostra quali la Susanna e i vecchi della Pinacoteca Nazionale di Bologna e appunto la Madonna del Rosario del Patrimonio Nacional, che si sono volute talora riferire tout court a Palumbo, nonostante rechino in evidenza la firma della pittrice.
DONNE FORTI E INTREPIDE
Una parte della mostra è dedicata alle donne forti e costituisce il campo ideale per ritrovare proiezioni autobiografiche di Artemisia, più o meno fondate. Le protagoniste femminili, tratte dall’immaginario classico e giudaico-cristiano, sono declinate nella formula compositiva della figura singola e in scene narrative, e rappresentano certamente il cuore delle produzioni di Artemisia e della mostra stessa.
Importante novità per gli studi è, in questa sezione, una Giuditta e l’ancella con la testa di Oloferne, del Nasjonalmuseet di Oslo, in Norvegia, finora nota solo attraverso vecchie foto di archivio e messa a confronto diretto con il Sansone e Dalila della collezione della Banca Intesa Sanpaolo, con cui gli studi l’hanno sempre collegata con giudizi non sempre pertinenti.
La vicenda di Giuditta ritorna nella grande tela di Capodimonte, con ogni probabilità appartenuta ai Farnese, duchi di Parma: qui Artemisia rispetto alle precedenti versioni del tema cambia registro e predilige la narrazione nel momento successivo all’uccisione del generale assiro, con il lume di candela che contribuisce ad accrescere l’atmosfera di tesa sospensione della scena.
EROS E THANATOS
Un capitolo fondamentale dell’esposizione è rappresentato dalle più impegnative e complesse composizioni a sfondo erotico, ispirate a racconti mitologici o a episodi del Vecchio Testamento. Per queste scene una lunga tradizione critica ha chiamato in causa la questione della bottega di Artemisia, sia per la modalità combinatoria con cui esse sono costruite, sia per le lampanti eterogeneità stilistiche, sia per le competenze specialistiche che si presuppongono come necessarie per l’esecuzione degli sfondi architettonici e paesistici: dalla Bethsabea al bagno della Galleria Palatina a Firenze, capostipite di una nutrita serie di redazioni del tema, alla tarda Susanna e i vecchi della Pinacoteca Nazionale di Bologna, firmata e datata 1652 (ultimo sicuro tassello cronologico nella carriera di Artemisia).
Tale sequenza è arricchita da confronti selezionati dalla produzione dei maggiori artisti del tempo, da Andrea Vaccaro (1604-1670) ad Agostino Beltrano (1607-1665), a Hendrick De Somer (1607-1656?): lavori spesso così vicini al gusto dell’artista romana da essere stati talora addirittura scambiati per opere della pittrice.
Ma al tema della nudità si accompagna spesso anche una riflessione sul corpo violato, e dunque sulla morte, come nel caso delle raffigurazioni dei suicidi di Lucrezia e di Cleopatra, un interesse attestato in qualche modo anche dal pittore, collezionista e pittore tedesco Joachim von Sandrart (1606-1688). Questi dando notizia di un passaggio a Napoli nel 1631, ricorda di aver qui eseguito, su richiesta di Artemisia, una Morte di Catone, a lume di notte, così come narrata da Plutarco. Secondo gli studi il dipinto è da identificarsi nella tela esposta e proveniente dai Musei Civici di Padova.
FAVOLE MITOLOGICHE
L’ultima sezione offre una chiusura spettacolare per la mostra, dal momento che raccoglie quattro favole mitologiche, eccezionali per la qualità esecutiva, vitalità espressiva e profondità tematica. In primo luogo due dipinti di Artemisia, la Corisca ed Il Satiro di collezione privata e Il Trionfo di Galatea della National Gallery Art of Washington, eseguito con il largo apporto di Bernardo Cavallino; l’Orfeo dilaniato dalle baccanti, raro dipinto profano di Massimo Stanzione, restaurato per l’occasione, e il Ratto di Europa di “Annella” Di Rosa (1602-1643) esposto per la prima volta al pubblico da collezione privata.
I quattro soggetti si prestano inoltre a uno sguardo contemporaneo sui ruoli sessuali. Infatti, il mito è la trasfigurazione di un originario episodio drammatico o cruento, mentre in quelli presi in considerazione prevale l’aspetto legato al conflitto di genere, così ricorrente nella produzione di Artemisia: il tentativo di stupro della ninfa Corisca o quello riuscito di Europa da parte di Zeus. Galatea, nella fulgida manifestazione della sua bellezza e la conseguente frustrazione del desiderio di Polifemo. Infine, per converso, l’uccisione di Orfeo da parte delle invasate baccanti, respinte dalla misogina castità del cantore tracio.
Ma è solo il naturalismo di questi artisti a conferire visibile e attuale concretezza, anzi a dare corpo, alla potenza simbolica di storie apparentemente remote.