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L’anima oltre l’immagine. La ritrattistica umanitaria di Lee Jeffries in mostra a Milano

Lee Jeffries, Portraits

 

Lee Jeffries, Portraits

Fino al 16 aprile 2023 il Museo Diocesano Carlo Maria Martini di Milano ospiterà Portraits. L’anima oltre l’immagine, la nuova mostra dedicata al progetto fotografico di Lee Jeffries che, attraverso oltre cinquanta lavori, dona voce al grido esistenziale di apolidi, poveri ed emarginati.

Il nuovo evento espositivo del Museo Diocesano di Milano, curato da Barbara Silbe e Nadia Righi, mette in scena il peculiare progetto fotografico di Lee Jeffries. Fotografo affermato, Jeffries si è approcciato alla fotografia da autodidatta, in seguito ad una folgorazione casuale, un evento preciso della sua esistenza che lo ha spinto ad avvicinarsi attraverso il mezzo fotografico ad una realtà che sentiva la necessità di raccontare dal proprio punto di vista, personale ed inedito.  Era il 2008 quando a Londra Jeffries venne colpito da una giovane ragazza senzatetto, seduta all’ingresso di un negozio: avulsa dalla frenesia della metropoli, la sua desolazione dissonante fu un richiamo inevitabile per Jeffries, che decise di scattarle furtivamente una fotografia. La reazione della ragazza fu quella di un furioso rimprovero, che spinse Jeffries al dialogo, fermandosi con la giovane homeless e interrogandola su un passato evidentemente doloroso, per comprenderne la realtà umana e rompere la barriera che impone la mera curiosità, stabilendo così un contatto sincero.

È da questo momento che inizia il progetto fotografico di Jeffries, di cui Portraits. L’anima oltre l’immagine è un esito toccante: un lunghissimo reportage infuso di lirismo, che Jeffries ha condotto in un costante peregrinare tra l’America ed il vecchio continente, documentando la vita irregolare degli homeless, solo dopo aver instaurato con essi un rapporto di amichevole fiducia, basato sulla vicinanza umana, il lungo dialogo e la comprensione.

Lee Jeffries, Portraits

La mostra si compone di oltre cinquanta ritratti che esprimono, nell’utilizzo privilegiato del bianco e nero, una dimensione fortemente spirituale, nella quale si staglia la grandezza umana dei soggetti immortalati da Jeffries, assurti ad icone di vibrante dignità. Nel sapiente uso chiaroscurale, il fotografo delinea le pieghe apparentemente insondabili dell’animo, la fragilità di individui troppo spesso emarginati, sui quali non indugia lo sguardo distratto della comunità, se non attratto dalla mera curiosità superficiale. I contrasti di cui vivono i soggetti, vengono enfatizzati da una luce sottile, che ne ripercorre le ferite, ne illumina le sottigliezze, rilevandoli dal buio dell’ombra e dell’incomprensione alle quali sono relegati, in un processo stilistico che avvicina il fotografo all’inesauribile lezione del realismo caravaggesco. A tale scopo concorre anche un calibrato uso della postproduzione, alla quale Jeffries ricorre per evidenziare con fare calligrafico i connotati dei volti, le loro peculiarità anatomiche, le imperfezioni connotanti, i tratti distintivi che segnano il corpo e lo spirito di chi è condannato ad una cruda realtà.

Lee Jeffries, Portraits

Come racconta Barbara Silbe: “L’autore ha conosciuto ogni singolo soggetto che ritrae, lo ha frequentato a lungo, a volte ha dormito con lui per strada, lo ha spesso aiutato, ben prima di inquadrarlo. In qualche modo lo aspetta, attende il tempo necessario al sorgere di quella fiducia reciproca grazie alla quale entrambi abbassano le difese per comunicare. I suoi personaggi emergono dal buio profondo, inondati da una luce teatrale, che restituisce ogni segno sulla pelle, ogni dolore racchiuso nel profondo dell’anima. Anche i contrasti così marcati, materici, della sua postproduzione, gli servono a svelare il mistero sull’essere umano”. 

Quelle di Jeffries sono fotografie che puntano al disvelamento di una pluralità di vicende umane, storie che non rappresentano isolate casistiche, ma condizioni esistenziali, appartenenti alla collettività. La straordinaria operazione del fotografo consiste nella semplicità dello sguardo, che implica un confronto, costringe alla stasi, alla riflessione troppo spesso negata. Ogni visitatore del museo sarà irrimediabilmente richiamato al confronto, coinvolto in quella pratica così semplice, ma sempre meno ovvia, che prevede il riconoscimento del sè nell’alterità. La fotografia di Lee Jeffries esala un grido inconfondibile: “I see you”, “ti vedo”, innescando un cortocircuito emotivo che dissolve progressivamente i confini tra soggetto e spettatore, riconciliati partecipanti di un comune destino.

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