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I confini sono nella testa di chi li pensa. Artisti e migrazioni a Genova

Io sono confine, Raziel Perin + Muna Mussie + Adrian Paci, Foto Anna Positano – Studio Campo
Nel contemporaneo che vorrei gli artisti non sono solo parte di un “sistema”, ma dei ricercatori dalle spiccate doti comunicative. E s’incontrano, fino all’otto aprile, in occasione di “Io sono confine”

Caro Marshall McLuhan, perdonaci. Ma, mentre ti pensiamo, ci rispondiamo che, in fondo, è un medium, in quanto strumento di comunicazione, in grado di apportare cambiamento nella società. Un medium non troppo diverso dalla televisione, attraverso cui gli artisti possono intervenire sull’attualità, trasmettendo inconsapevolmente il più grande talk esistente sulla faccia della Terra. In cui non c’è ospite che maltratti le orecchie degli spettatori. Baci.
Nulla nasce dal nulla. Nemmeno certe elucubrazioni di cui sopra. Ci siamo arrivati appuntando svelti qualche frase di Antonino Milotta e Anna Daneri. Frammenti all’interno di un discorso più ampio sul tema delle migrazioni. Milotta è artista e ricercatore, dottorando del XXXVI ciclo in Scienze Sociali presso l’Università degli Studi di Genova, curriculum “Migrazioni e processi interculturali”. Un dualismo che mette Antonino nella posizione di dire «All’artista è richiesta la produzione, non la ricerca», per aggiungere «L’artista ha una predisposizione a parlare di fatti sociali». Dal canto suo, Daneri parla di «Urgenza di chi si occupa di arti visive di prendere una posizione».

Siamo quindi a parlare della mostra “Io sono confine”, nata dall’incontro tra la progettualità di Milotta (in collaborazione con il collettivo Eufemia del Laboratorio di Sociologia Visuale dell’Università di Genova), la curatela di Daneri assieme a Pierre Dupont (Giulia De Giorgi, Michela Murialdo e Roberta Perego) e il sostegno, tra gli altri, dell’associazione miramART. Dal canto suo, Genova ha aggiunto una natura portuale, incline al viaggio e alle intersezioni culturali. Gli artisti, dal loro, il non essere semplici nomi all’interno di un “sistema” (Bonito Olivaccio che non sei altro), ma persone caldamente motivate – ce lo ha assicurato Milotta – nel prendere parte al progetto.
Ventotto artisti, numero raggiunto dopo aver scremato i circa settanta nomi individuati da Antonino. Comunque non pochi per uno spazio come PRIMO PIANO di Palazzo Grillo, a patto di non utilizzarne ogni piega con una mano sartoriale. Cosa che è stata fatta, ottenendo un impianto espositivo arioso e funzionale. Applausi, soprattutto dopo aver saputo che i piani prevedevano una location ben più ampia: il museo di Villa Croce. Tutta Villa Croce, da cima a fondo. Non se n’è fatto più niente. Chissà perché quando l’abbiamo appreso la notizia non ci siamo meravigliati. Mah.

Il reboot espositivo regala quindi un percorso fluido, con una sequenza di pezzi sempre ben tematizzati; a loro volta elementi di passaggio, come step interni a un tragitto di conoscenza. Che comincia all’esterno, dalle parole semplici di Jonida Xherri, tessute su un arazzo appeso sulla facciata di Palazzo Grillo: «O Italia, o grande stivale, non cacciarmi di nuovo a pedate». Parole, proprietà intellettuale del poeta Emanuel Carnevali, che contengono tutto quello che serve: appartenenza a un luogo (Italia), migrazione verso un altrove (America), ritorno in patria. C’è l’emigrazione italiana, quella del primo Novecento; che, aperta parentesi, forse non conviene valutare in sovrapposizione al presente, epoca in cui la migrazione è per noi un processo “subìto” e non “scatenato”. Ideologizzare la storia, contrapponendo un “anche noi italiani siamo stati migranti” a “a noi italiani facevano pelo e contropelo”, è un atteggiamento molto politichese e poco spendibile nel concreto. Comunque la si pensi. Certo, le primavere sulle spalle servono anche a riconoscere che il politichese è a buon mercato, mentre l’empatia non è cosa per tutti. Sia mai che il lavoro di Xherri funzioni da distributore/stimolatore h24.

Io sono confine, Nico Angiuli + Binta Diaw, Foto Anna Positano – Studio Campo

Dall’interrno, la varietà di registri narrativi che si ritrova è direttamente proporzionale alla non linearità dei processi migratori. A segnare la distanza esterno-interno è Agathe Rosa con Pelo libero, video-onda che sta lì come un ingresso catartico. Non a caso è una delle “opere soglia” – le altre sono di Cleo Fariselli ed Eva Marisaldi – inserite da Pierre Dupont, come zone franche a inframezzare una narrazione decisamente a fuoco. Una narrazione che in pochi metri va dal “sarcasmo consapevole” (puro specchio dei tempi) di Comunicazione istituzionale di Pamela Diamante, alla bandiera alienata di Oltremare di Bruna Esposito; lavori che convergono, in maniera diametralmente opposta, su confini che parlano di persone, fisicità, politica internazionale. Un attenzione all’attualità che non può dimenticarsi di passare per Resto di Masbedo.

Io sono confine, Invernomuto + MASBEDO, Foto Anna Positano – Studio Campo

Quando è il turno di Invernomuto e blackmed.invernomuto.info, archivio sonoro multiculturale e in costante divenire, le tracce audio hanno già creato un unico sottofondo. Si compenetrano, producendo una sorta di «Una lingua comune» secondo Daneri. E tutto sommato è un gioco di squadra che fa il paio con quello tra le competenze di chi, partita dall’antropologia, è arrivata all’arte. Una migrazione di tutt’altro genere. Fondamentale per trovarci oggi a scavalcare un confine, tracciato con (finti) lingotti d’oro, che dello stesso confine segnano il valore fisico/metaforico. L’opera si chiama Passing, è in fieri dal 2017 e a fine mostra prevede una edizione di 10 pezzi che andranno all’asta per sostenere Mediterranea/Saving Humans e Progetto 20K . E lei è Fiamma Montezemolo.

Io sono confine, Fiamma Montezemolo, Foto Anna Positano – Studio Campo

Quello che non abbiamo detto in apertura, ma fin qui dovreste un minimo aver immaginato, è che questo progetto non tratta il binomio migrazione-dramma come unica via narrativa. Prendete Centro di permanenza temporanea di Adrian Paci, a buon titolo un classico sul tema. Sono una quindicina d’anni che quel lavoro mette istantaneamente in risalto condizioni non facili. Ed è da una manciata di giorni, dall’inaugurazione di “Io sono confine”, che è entrato in un circuito narrativo di cui è parte necessaria, ma non sufficiente. Qui la base razionale/scientifica del progetto fa la differenza: tiene alla larga una lettura distopico-faziosa, che andrebbe a distogliere lo sguardo da altri aspetti fondamentali inerenti i processi migratori. Per capirsi: entrare e avere i recenti fatti di Cutro come unico focus è un problema di superficialità individuale.
Pertanto, di fronte a certi temi ci si può parare il posteriore buttandola sul dramma. Oppure attivarsi, per capire le dinamiche di certi processi. Che non escludono certo un coté drammatico, ma sono anche qualcosa di più complesso e invasivo. Tre titoli di Nico Angiuli è un film, proiettato nello spazio cinema della mostra (quattro ore, si quattro, di programmazione totali); sono anche sei still-frame basilari, sei immagini che utilizzano bene il senso del didascalico, mantenendo il filo del discorso tramite lo sfruttamento dei lavoratori nei campi agricoli. Didascalico è anche il Carpet di Ryts Monet, coperta termica stampata a motivi decorativi tipicamente mediorientali: ecco, in questo caso pure troppo.

Io sono confine_Margherita Moscardini + Serena Vestrucci, Foto Anna Positano – Studio Campo

Gli ultimi due nomi che vogliamo fare sono quelli di Margherita Moscardini e Serena Vestrucci. Moscardini con 1XUnknow in basso, Vestrucci con Strappo alla regola in alto. È l’ultima sala, la più bella (per insindacabile giudizio di chi scrive) in quanto concepita come uno spazio avvolgente. Un’ambientazione, dove le artiste mettono la stessa attenzione alla riconversione oggettuale, una complementarietà ottenuta partendo da elementi base diversi. Per la prima sono le fortezze difensive in disuso ad aver ridisegnato, ridisegnandosi, all’interno del paesaggio costiero; per la seconda, un elemento iconico quale la bandiera europea, che diventa un cielo avvolgente. Che, attenzione, fa rima con accogliente.
Tutte le opere presenti in Io sono confine le potrete ritrovare su artsonthemove.org, piattaforma-archivio dedicata al tema delle migrazioni.

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