La Fondation Beyeler è il primo museo svizzero a ospitare una vasta monografica dedicata all’artista colombiana Doris Salcedo (*1958). Riunendo otto serie di opere centrali di diversi periodi creativi l’esposizione, a cura di Sam Keller, Direttore, e di Fiona Hesse, Associate Curator della Fondation Beyeler, si sviluppa su 1300 metri quadrati e presenta un centinaio di opere singole. Gli oggetti, le sculture e gli interventi site specific di Doris Salcedo tematizzano i vissuti e le conseguenze dei conflitti violenti in ogni parte del mondo. I lavori, benché il più delle volte ispirati da precisi fatti di cronaca, hanno valenza universale e producono un effetto cui non ci si può sottrarre. Sovente essi ruotano attorno a riflessioni sulla perdita, sul dolore individuale e sul lutto collettivo, oltre che sulla necessità del loro superamento sociale. L’installazione Palimpsest, 2013–2017, è in mostra alla Fondation Beyeler fin da ottobre 2022.
Doris Salcedo è cresciuta nella capitale colombiana Bogotá, da lei stessa descritta come epicentro di catastrofi. Costantemente confrontata con l’orrore delle strutture del potere politico e della sofferenza umana nella sua patria, l’artista è andata maturando una spiccata coscienza sociale e politica. Ne sono scaturite opere che danno corpo alle emozioni e idee generate da tali esperienze. Ma anziché ricorrere a rappresentazioni plateali Salcedo punta a individuare i sentimenti condivisi dagli spettatori. Dice: “Ciò che tento di tirare fuori dai [miei] lavori è l’elemento che ci accomuna tutti.”
Una delle opere più significative della mostra, A Flor de Piel, 2011/14, è costituita da centinaia di petali di rosa cuciti insieme con filo per comporre un sudario lievissimo che si dispiega su un’ampia superficie di pavimento. Spunto dell’opera è un crimine commesso contro un’infermiera colombiana torturata a morte, i cui resti mortali non sono mai stati ritrovati. Il titolo A Flor de Piel rimanda a una locuzione idiomatica spagnola che esprime il manifestarsi di emozioni a livello della pelle, in quanto la cute umana è suscettibile di impallidire o di arrossarsi a fronte di una sensazione perturbante, proprio come un fiore. Per Salcedo l’atto stesso del suturare i petali è una componente importante di quest’opera, capace di visualizzare in maniera inconsueta e mirabile la fragilità della vita.
Solo una sala più in là sono esposti in fila i tavoli di Plegaria Muda, 2008–2010. Nel 2008 l’artista ha spostato l’attenzione sulla criminalità delle bande di Los Angeles e notato come vittime e aggressori spesso avessero in comune una medesima situazione socioeconomica e provenissero da ambienti similmente svantaggiati. Sulla base di questa osservazione Salcedo ha sovrapposto in ripetizione, piano contro piano, due tavoli della misura di una bara, separati da uno strato di terra. Ciascuna di queste coppie di tavoli simboleggia una delle centinaia di coppie autore-vittima, i cui destini rimangono tragicamente legati fra loro. Richiamando delle sepolture scavata di fresco l’opera ricorda allo stesso tempo la pena di tutte le madri colombiane in lutto che cercano nelle fosse comuni i propri figli scomparsi. Plegaria Muda, traducibile con “preghiera muta”, esplicita l’importanza universale di una tomba e un commiato terreno individuali e dignitosi. Attraverso l’erba che spunta come un barlume di speranza dai piani dei tavoli fatti a mano Salcedo esprime la sua convinzione che la vita finisce per prevalere su tutti i mali.
Disremembered, 2014/15 e 2020/21, evidenzia più di un aspetto importante della poetica di Salcedo. È un’opera quasi immateriale, appena palpabile, il cui contenuto si svela all’osservatore soltanto a distanza ravvicinata: il velo di seta simile a una camicia, che Salcedo ha disegnato ricalcando la propria camicetta, è punteggiato da innumerevoli piccoli aghi che si trovano in minaccioso contrasto con la delicatezza evanescente della scultura. Nella fase preparatoria dell’opera Salcedo ha dialogato con madri che avevano perso i loro figli a causa della violenza armata in quartieri problematici di Chicago. Il dolore sempre presente e inconsolabile di queste donne è evocato dagli oltre 12.000 aghi sottili intessuti nella trama e ben visibili in trasparenza.
Tra questi poli di grazia e violenza si muovono anche molti altri lavori di Salcedo. Per esempio in Atrabiliarios, 1996, varie paia di scarpe usate sono poste in teche ricavate nella parete della mostra, chiuse da una membrana di pelle vaccina che permette di vedere soltanto le sagome offuscate delle calzature. In questo modo Salcedo intende evitare che si dissolva nell’oblio la memoria di coloro che un tempo le indossavano: donne vittime di Enforced Disappearance (sparizione forzata) in Colombia.
La serie Untitled, 1989, si compone di diversi mobili in legno imprigionati da una colata di cemento. Preliminarmente all’opera l’artista ha trascorso svariato tempo a contatto con i familiari di vittime della violenza persistente e della guerra civile in Colombia e ha chiesto di potersi avvalere di oggetti domestici appartenuti alle vittime, inutili dopo la loro scomparsa, che stavano lì come angoscianti emblemi della loro assenza.
Unland, 1995–1998, prende le mosse da interviste a bambini orfani del nord colombiano, inermi testimoni dell’uccisione dei propri genitori. Le due metà di un tavolo unite tra loro da un misto di seta e ciocche di capelli materializzano l’equilibrio precario che incombe sulle famiglie lacerate dalla violenza.
Untitled, 1989-93, è nata in risposta a due massacri avvenuti nel 1988 nella Colombia del nord all’interno delle piantagioni di banane di La Negra e La Honduras. Le sculture sono costituite di camicie bianche di cotone colate in gesso e trafitte da aste di acciaio. Alludendo all’assenza del corpo umano le camicie rimandano al vestiario standard dei lavoratori in queste piantagioni come anche all’abbigliamento mortuario dei deceduti.
Nell’installazione ambientale Palimpsest, 2013–2017, Salcedo si concentra sui profughi e migranti che negli ultimi vent’anni sono annegati nelle acque del Mediterraneo o dell’Atlantico durante pericolose traversate verso l’Europa. Per cinque anni l’artista ha ricercato i nomi delle vittime, che affiorano e di nuovo scompaiono dalle lastre pavimentali in pietra color sabbia dell’installazione che misura circa 400 metri quadrati.
Le opere di Doris Salcedo spesso richiedono anni di preparazione, ricerca e ricognizione dei siti, sfociando in operazioni concettuali complesse e minuziosamente pianificate. È tipico dell’artista non mostrare mai direttamente le atrocità che affronta e rielabora nelle sue opere. Di proposito sceglie invece materiali e mezzi espressivi che conferiscono all’orrore una visibilità indiretta e che a prescindere dalla loro connotazione minacciosa racchiudono in sé bellezza e poesia. Con il suo lavoro Doris Salcedo mira a gettare un ponte tra la sofferenza e la miseria dell’esistenza umana da un capo e tra i desideri e le speranze dall’altro.
In occasione della mostra viene pubblicato da Hatje Cantz Verlag, Berlino, un catalogo che riporta testi di Fiona Hesse, Seloua Luste Boulbina e Mary Schneider Enriquez nonché una prefazione di Sam Keller e poesie di Ocean Vuong.