Il MAMCO di Ginevra prosegue nell’approfondimento e nello studio della propria collezione, facendo così riscoprire opere “nascoste” e collegandole al loro contesto storico e culturale. Si tratta di una ricerca seria, che rimette in circolo l’arte del Novecento e ne evidenzia a distanza l’importanza, valorizzando il proprio patrimonio e fornendo nuove interpretazioni e prospettive sulla contemporaneità
Cinque mostre si dipanano nei vari piani del MAMCO di Ginevra. La prima è dedicata all’artista francese François Ristori (1936-2016), meno conosciuto e tuttavia compagno di strada di B.M.P.T., André Cadere, Bernard Joubert e Claude Rutault, tutti impegnati ad analizzare i presupposti dell’arte attraverso l’azzeramento di qualsiasi contenuto soggettivo ed autoriale nella pittura, iniziando così la critica istituzionale. Dato che non era stato invitato a partecipare alla Biennale di Parigi nel 1969, Buren e Toroni gli cedono il posto. E poi negli anni Settanta fino al 1985 espone per Yvon Lambert a Parigi, e di seguito a Bruxelles, a New York e a Digione. Ristori costruisce tra il 1960 e il 1970 la propria grammatica pittorica radicale che declina nelle “traces-formes”, forme esagonali sempre dipinte con tre colori: il bianco, il blu, il rosso. La pittura è ridotta ad una forma elementare ripetitiva, che segue un preciso protocollo redatto da Ristori nel 1968 la Proposition-Peinture. L’artista riproduce queste forme su vari supporti pittorici ed extrapittorici, utilizzando sempre il concetto di site-specific in galleria, come sulle strade, sulle architetture invadendo lo spazio attraverso un segno costruito secondo un automatismo, che gode di una sua impercettibile variazione perché legato comunque alla sensibilità manuale dell’artista. Questo percorso radicale termina con la metà degli anni Ottanta, quando si ritorna al soggetto e alla cifra individuale con la pittura espressionista.
La seconda mostra – dedicata a Ian Burn e curata da Ann Stephen – riguarda gli stessi anni, ma geografie e presupposti diversi. Ian Burden (1939-1993), artista australiano, nel 1964 si sposta a Londra dove si ricongiunge a Mel Ramsden. Inizia con opere radicali e riduzioniste che mescolano minimalismo e arte concettuale, sistema visivo e linguistico interroganti i presupposti della visione con una volontà di democratizzazione del mezzo. L’opera collettiva Soft Tape (1965-66) una voce registrata a bassissimo volume su nastro, costituisce il presupposto della loro pratica successiva, che li vede espatriare negli Stati Uniti nel 1967 e entrare nel collettivo Art and Language. Partecipano entrambi al secondo numero della rivista omonima nel 1969 dove utilizzano la filosofia analitica per interrogare le metodologie e il linguaggio dell’arte e della sua recezione. In mostra Undeclared Glasses (1967) di Ian Burn, opera che doveva essere sistemata dallo spettatore secondo un ordine libero, è posta accanto a Six Negatives, 8 pieces, holding for six negatives (1968) di Art & Language interessante documento dove vengono analizzati in modo analitico i rapporti interni ed esterni all’opera. Ian Burn usa il vetro e lo specchio come mezzi di riflessione sul medium in un sistema tautologico ed autoriflessivo fino ad arrivare, dopo un periodo di allontanamento dalla pratica artistica dovuto al clima di rivolta che trova al suo ritorno in Australia nel 1977, all’uso ancora della trasparenza del plexiglass dove scrive soprapponendo la scrittura a paesaggi trovati nei mercatini, sono le sue ultime opere.
Mierle Laderman Ukeles (1939) negli anni Settanta si occupa del ruolo delle donne come madri nella società e nel 1969 scrive un manifesto per un’arte della manutenzione e della cura. Alla fine degli anni Settanta amplia il raggio d’azione e passa alla critica della liberalizzazione del servizio di manutenzione della città e fa un anno di interviste-performance ai lavoratori.
Vi è poi una grande mostra dedicata al gruppo canadese General Idea e divisa in due sezioni “Ecce Homo” curata da Lionel Bovier direttore del MAMCO e Claire Gilman con il Drawing Center di New York e che raccoglie ben 250 disegni fatti da Jorge Zontal (uno dei tre componenti del collettivo) e “Imagevirus”. Zontal, AA Bronson e Felix Partz si sono incontrati a Toronto in seno alla controcultura degli anni 60. Hanno prodotto in collaborazione tutto negando il concetto di autorialità: dai video, alle performance, ai poster, a un negozio di merchandizing, contestando in modo ironico e libero la cultura dei media e la comunicazione, la società ed economia consumistiche proponendo un’immagine queer con azioni e opere che stanno tra l’arte e l’attivismo. La mostra si iscrive in un momento d’interesse per il collettivo: lo Stedelijk Museum Amsterdam ha in corso una poderosa retrospettiva del loro lavoro, mentre la mostra ginevrina si focalizza sui disegni di cui è stato pubblicato un raffinato catalogo e che sono stati fatti a partire dalla metà degli anni ’80 quando sono arrivati a New York. Come si legge nell’interessante intervista tra AA Bronson, Claire Gilman e Lionel Bobvier, nella rivista del museo, Jorge Zontal, che nello spirito del gruppo si firma GI, trae ispirazione e metodologie disegnative dalla disciplina tantrica riguardante le arti chiamata Yamantaka appresa direttamente durante un viaggio in India e basata sull’ascolto della propria interiorità, sulla ripetizione e sull’automatismo del segno. La seconda parte della mostra è dedicata ai lavori sull’AIDS che riprendono il font serif su un fondo contrastato e perimetro quadrato e che assomigliano ai quadri con parole di Robert Indiana. Iniziano il lavoro attivista sull’AIDS negli anni 80, ancora prima che due componenti si ammalassero e morissero entrambi per questa malattia nel 1994. Nella mostra è anche stato ricostruito il corridoio AIDS (Nauman), 1983-3023 in cui la sensazione claustrofobica del prototipo è aggiornata allo stato infettivo comunicato dalle parole stampate all’interno.
Infine la mostra “Pictures & After” curata da Lionel Bovier e Julien Fronsacq è costruita a partire dalle collezioni del museo. Si tratta degli artisti appartenenti alla “Picture Generation” che è stata per la prima volta stigmatizzata nella mostra Pictures nel 1977 curata da Douglas Crimp per l’Artists Space di New York. Tra gli artisti iconici che hanno costruito la propria fortuna sul concetto di appropriazione critica dell’immagine dei media si ritrovano Cindy Sherman o Robert Longo, Elaine Sturtevant o Richard Pettibon, Richard Prince o Sherrie Levine. Alcuni come Meyer Vaisman, Troy Brauntuch e Jack Goldstein scelgono immagini dai media e le rimanipolano attraverso la pittura. Ian Wallace, David Robbins, Walter Robinson si riferiscono alle narrative che sottostanno alle immagini, come fanno ciascuna con una sua fonte distinta Nicole Gravier e Erica Baum. Mentre Philippe Thomas azzera la presenza autoriale attraverso l’appropriazione del ready-made allargato. L’ultima sezione è dedicata all’installazione con gli svizzeri John M. Armleder e Silvie Fleury, alla discesa nel disgusto delle sculture di John Miller e all’appropriazione in chiave simulacrale di Louise Lawler e Allan McCollum.