Letizia Battaglia sono io, Letizia Battaglia è tutti noi. A un anno dalla scomparsa, il mito della fotografia va in mostra a Palazzo Ducale di Genova. E anche uno scribacchino, nel profondo del suo cuore, lo sa: un mito non muore mai.
Per qualcuno questo pezzo inizierà male: rieccolo il solito scribacchino, intento a spremersi le meningi a cercare parole giuste per mettere su un racconto credibile della mostra che ha visitato. E che, alla fine, trova solo quelle più banal-fighettamente descrittive. O forse nemmeno quelle.
Lo scribacchino l’impegno ce lo mette, ma ogni volta che ci si scontra con un progetto dedicato a Letizia Battaglia (1935-2022) l’impatto non è mai di quelli facili da spiegare a sé stessi, figuriamoci agli altri. Perlomeno non a parole. Diciamo che, in un certo senso, ne esci come un sopravvissuto; come uno di Roma nord che ha fatto il Vietnam, per citare una perla meta-attoriale di Pietro Castellitto. Insomma, con la stessa spossatezza di chi è stato appena messo in centrifuga, lasciato a vivere (o ri-vivere, questo dipende dai lustri che può vantare il soggetto in questione) un bella fetta di secondo Novecento italiano nel tempo di una mostra. Centrifugato, sì, ma col sorriso, determinato dalla sfrontatezza di una Letizia che, un po’ come il suo fosse un nomen omen, intervistata a ottanta e passa anni, affermava di avere tutta una vita – e una carriera – davanti.
Ecco perché iniziamo male. Perché visitando una mostra di Letizia Battaglia fai un upgrade emotivo non da poco. E perché c’è già troppo pathos, troppo coinvolgimento in transito dai polpastrelli di uno che ha adorato, adora e adorerà quella donna dal carattere ben più granitico del colore del suo caschetto. Troppa emotività, anche se a quest’ultima si è appellato pure Beppe Costa, presidente di Fondazione Palazzo Ducale, a parer nostro centrando il punto della questione in “Letizia Battaglia sono io” (fino al primo novembre 2023). Una mostra secondo il cui curatore, Paolo Falcone, ci si può «Immergere». Organizzata come una «Foresta in bianco e nero», dialogo con uno spazio che, continua, «Abbiamo voluto rendere più neutro possibile». Perché al resto ci pensa lei, Letizia, donna determinata che in un’intervista ha confessato d’aver cercato donne e bambine «Con grande disperazione», per «Sopravvivere» all’orrore degli ammazzamenti, in una Palermo dalla decadenza efferata. Perciò ha senso il «Non troverete un percorso» detto da Falcone, in ottemperanza dei «Pianti e sorrisi che rappresentano la complessità della vita». In virtù di una Letizia che dichiarava «Io sono le mie fotografie», vita che scorre davanti agli occhi, in un allestimento sospeso e soffuso. Che riprende diretto quello della grande mostra al MAXXI di Roma nel 2016, ma aggiungendoci quel carisma d’ambientazione, tra colonne in ardesia e uno studiato rapporto spazio/illuminazione che non lascia spazio a distrazioni fuori contesto.
E, per la prima volta assoluta in una mostra, With Italy for Italy, gli scatti realizzati per Lamborghini. Quelli della discordia, della gente interessata più a sollevare una pretestuosa polemica, che a osservare delle ragazzine in una Palermo coerente nel passaggio dal bianco e nero al colore. Quelli del “nessuno tocchi Letizia” invocato dagli intellettuali, che seppur sacrosanto all’epoca dei fatti (il 2020), oggi suona quasi ridondante. Ovviamente resta l’amarezza dell’attacco a una professionista, ma a Genova ora si scontra con la magnificenza gigante (in tutti i sensi che potete immaginare) di scatti in cui ancora una volta Letizia ha ritratto la sua città, fatta di sguardi sinceri e corpi vestiti di shorts, canotte e puro temperamento. Quella con Lamborghini è stata l’ennesima Battaglia, di nome e di fatto, di una Letizia che non ha mai voluto esprimere una sensibilità fuori dal comune: immergersi nel comune le è sempre stato più congeniale del guardarlo dall’alto in basso.