Una produzione di quasi dieci anni di attività (2014 – 2023) che testimonia una coerenza progettuale e un’eterogeneità linguistica che contamina la scultura. Fino al 19 maggio 2023
Proponiamo il testo critico della mostra scritto dal curatore Andrea Tinterri.
Inizierò proponendo un titolo alternativo a quello individuato da Nazeraj, Un’autobiografia. Sicuramente meno evocativo e più abusato dell’originale Silenzio d’oro, che riprende quello di un’opera presente in mostra. E sicuramente più didascalico ma utile per comprendere una pratica espositiva e progettuale che caratterizza il lavoro, ormai decennale, dell’artista Erjon Nazeraj. La mostra, come in altri episodi in passato, si compone di frammenti autobiografici che si affrancano da una dimensione diaristica e si propongono come piccoli monumenti (carte, marmi, gessi).
E le citazioni biografiche sono declinate nella forma paesaggio, come se quest’ultima potesse tradurre una vita intera, come se il paesaggio potesse assecondare ed evocare un tempo partecipato. Il progetto più recente esposto in mostra Superfici Eoniche (2021) sono ritagli di carte geografiche, documenti, coperte termiche. Collage di esperienze private e cronache contemporanee che assumono la forma di bassorilievi. Dettagli fragili, dettagli cartacei che mutano in fossili e restituiscono spessore al tempo. Una biografia che non è più privata ma pubblica, sono segnali che vengono raccolti e bloccati in scultura. Perché il paesaggio è la categoria che tutto accoglie e tutto sintetizza.
Come nell’installazione Paesaggio con figura ( )dove un antico santuario e la montagna che lo ospita vengono evocati da un parallelepipedo in marmo e una siluette in ferro che simula una vetta. Due elementi che testimoniano un luogo reale e vissuto dall’artista stesso ma che, in questo caso, perde la sua identità per elevarsi a simbolo. Come se il sacro avesse bisogno di una forma per manifestarsi e il santuario fosse un piccolo amuleto, una scultura facilmente trasportabile, un pezzo di un rosario da caricarsi sulle spalle. E la montagna solo un’immagine spogliata di cui rimane una labile traccia. E così la biografia diventa tempo assoluto, i luoghi non hanno nome e i ricordi solo tracce fossilizzate. E non è la restituzione di pochi decenni di vita, ma ere geologiche che si accumulano nella stanza. Alla parete un disegno (Infinito azzurro, 2023), un monocromo che ricorda un cielo, anzi un rettangolo colorato per tutti i cieli possibili, forse lo sfondo alla montagna, forse una quinta per il santuario. Ma anche in questo caso è l’universalità del pigmento, è un foglio che contiene tutto, è un buco che risucchia il paesaggio.
Poco distanti due polmoni in cemento armato (Respiro, 2014), probabilmente il segnale di un rapporto atrofizzato con la natura, ma anche presenza umana nello spazio. Un organo che testimonia un respiro bloccato nel tempo, cementificato e assunto a monumento. Come il paesaggio anche l’essere umano appare scomposto, vivisezionato; a restare è solo il ricordo di frammenti, quell’inesauribile segreto che permane al ricordo.
Come accade per l’opera che dà il titolo alla mostra, Silenzio d’oro (2018). La riproduzione di piccole ossa dell’orecchio appoggiate su una lastra in ottone che riflette la luce della stanza. Anche in questo caso sono residui di corpo, pezzi di un tutto, ossa che sopravvivono alla morte e diventano eredità di un paesaggio umano. L’opera è posta in una parte centrale della sala, come fosse il perno su cui ruota l’intera mostra per slittare l’attenzione sull’udito, o meglio sull’ascolto, pratica necessaria per conservare quello che rimane di fragili ritagli.