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Vucciria, voci da Palermo. Incontro con Adriano La Licata

Adriano La Licata
Adriano La Licata (1989) vive e lavora a Palermo, è un artista indipendente ma legato anche a collettivi, connotato da uno sguardo distopico che può sbucare all’improvviso nelle sue opere, giocando sull’ambiguità percettiva. Attraverso la sua produzione ci osserva ed è osservato, e il corpo segna e genera una relazione tra interno ed esterno. Leggiamo la sua intervista per saperne di più della sua idea anarchica e ironica sulll’arte.

Hai frequentato l’Accademia di Belle Arti di Palermo, quali corsi ti hanno maggiormente formato una visione e pratica poliedrica e trasversale di ricerca?
Ho iniziato a frequentare l’Accademia di Belle Arti di Palermo nel 2008, all’epoca non c’era ancora l’indirizzo specifico di Fotografia, che già era la mia passione, quindi ho scelto l’indirizzo di Graphic Design, perché offriva una vasta gamma di materie correlate ad essa. Sono stati i corsi di natura teorica a giocare un ruolo importante nella mia formazione e ricerca artistica. Come Fenomenologia delle arti contemporanee con la prof.ssa Gianna Di Piazza e Storia della Fotografia con il prof. Sandro Scalia. Questi corsi mi hanno fornito una solida base teorica e mi hanno aiutato a comprendere il contesto dell’arte contemporanea. Anche il corso di Digital Video del prof. Marco Battaglia mi ha aperto al mondo della narrazione e del montaggio. Invece il corso di Graphic Design, tenuto dal prof. Renato Galasso ha contribuito a strutturare la mia idea di progettualità, composizione dell’immagine e organizzazione dello spazio digitale e plastico.

Quali artisti di ieri e di oggi ti hanno particolarmente ispirato?
Da una varietà di artisti, sia del passato che contemporanei. Alcuni di loro hanno avuto un impatto significativo sul mio lavoro. Mi affascina l’approccio degli artisti in cui la presenza dell’artista stesso diventa uno strumento per l’opera, così mettendo anche in discussione l’identità stessa dell’artista. Tra i miei soul mates, Gino De Dominicis, che ha esplorato la sospensione del tempo e l’immortalità attraverso il suo lavoro. Bas Jan Ader, con il suo approccio sperimentale e poetico, ha creato opere profonde e concettuali. Cezary Bodzianowski, attraverso il suo lavoro concettuale e performativo, sfida le convenzioni artistiche e sociali. Naohiro Utagawa, che con le opere fotografiche ci restituisce ambienti surrealisti che raffigurano paesaggi psicologici. Tuttavia, gli artisti che mi ispirano maggiormente sono quelli con cui condivido il percorso artistico qui a Palermo. Sono le relazioni umane che si sviluppano nel contesto artistico che alimentano la mia creatività. Non si tratta solo dell’opera d’arte in sé, ma della condivisione di idee, del confronto e della collaborazione con i miei amici artisti. Questa connessione e scambio di energie è ciò che mi motiva e mi arricchisce quotidianamente. Ho sognato e collaborato con artisti come Elias Vitrano, Maziar Firouzi, Federico Lupo, Gianluca Concialdi, Marco Cassarà, Giulia Sofi, Andrea Masu, il collettivo LANDESCAPE, e i colleghi del gruppo del Verein Dusseldorf-Palermo.

Quanto incide lo scenario, le abitudini, le contraddizioni e cultura siciliana nel tuo lavoro ?
Vivere e lavorare a Palermo rappresenta una straordinaria e tormentosa sfida. Tornare a Palermo non implica semplicemente stabilirsi qui, ma piuttosto immergersi in un rapporto complesso con un organismo vivente, simile a un essere umano. La complessità di questa relazione non è solo legata al fatto che Palermo è la mia città natale, ma anche al suo carattere intrinseco, ricco di contrasti che svelano l’illusione della netta divisione tra bene e male. In questa polis, i poli di diverse dualità si fondono in modo sorprendente e contemporaneamente terrificante. La nostra mente dualistica, che cerca di categorizzare il male e il bene, viene messa in discussione e quotidianamente siamo testimoni di esperienze in cui amore e terrore camminano a braccetto. Palermo non dà niente , ci si incontra o scontra per sopravvivenza, e, in questa mancanza, crea le premesse per l’autonomia culturale, stimolando la creazione di molte pratiche e relazioni sotterranee che, per scelta o necessità, si sviluppano al di fuori delle istituzioni culturali pubbliche o private. Queste pratiche divengono autonome e si svincolano dalla burocrazia e dalle gerarchie stantie della società attuale. Analogamente alle avanguardie storiche, essere partecipi e protagonisti in questa città significa essere avanguardisti, sicuramente più che in molte altre città italiane. Palermo ci costringe a inventarci strade alternative, ad adottare approcci non convenzionali e a spingere i confini dell’arte. È un luogo in cui l’arte si nutre delle contraddizioni, delle tensioni e delle complessità.

Quanto ti ha formato il tuo periodo all’estero?
Ho partecipato a diverse residenze d’artista in Europa, per esempio a Glasgow, a Dusseldorf e a Rotterdam. Tutte, in modo diverso, sono esperienze in cui hai il tempo, lo spazio e l’economia per focalizzarti interamente sul tuo lavoro artistico. Questa esatta combinazione di elementi non è affatto scontata e rappresenta un contesto ideale per lo sviluppo, l’esplorazione e la condivisione del processo artistico.

Tuo padre è un attore, sei figlio d’arte, quanto ha inciso sulle tue scelte e lavoro?
Il suo essere artista, il suo essere padre. Sono cresciuto in una famiglia immersa nell’arte. Due dei miei zii sono compositori di musica classica e contemporanea, mentre mio padre è autore, regista e attore teatrale. Anche mia sorella Clara ha intrapreso la strada della musica come cantante lirica. Fin da bambino ho avuto l’opportunità di abitare teatri e spazi dedicati all’arte, andavo ai concerti di musica classica e diversi spettacoli teatrali. Questo ambiente familiare ha sicuramente contribuito a far nascere la mia passione per le arti. Tuttavia la relazione con mio padre è ancora un’altra storia. Il rapporto padre figlio è uno dei più complessi, almeno il mio sicuramente, ma è in questa tensione, anche genetica, che il mio lavoro getta un faro. Il palcoscenico di mio padre si espandeva ovunque, fino alla sfera domestica. In un continuo pendolo tra enorme stima e senso di oppressione, mi muovevo negli spazi che non sembravano mai abbastanza grandi per stare comodi. L’ironia e la profondità del teatro venivano intuitivamente trasportati all’interno di mie attrazioni per dispositivi di narrazione come videocamere, registratori audio e fotografia. Se la nonna la chiamavamo Moto Guzzi, mio padre allora era un caterpillar di emozioni che mi ispiravano e molte volte schiacciavano. Queste sensazioni di disagio poetico hanno portato un continuo interrogarmi sul valore e le strutture delle relazioni umane e delle relazioni tra essere umano e ambiente pubblico, privato e “privato”, inteso come “escluso”, “negato”.

C’è teatro nel tuo lavoro?
L’influenza del teatro e della sua idea di “io” in continua discussione si riflette nel mio lavoro artistico. Sono affascinato dall’idea d’identità e dal modo in cui possiamo esprimere diverse sfaccettature di noi stessi attraverso l’arte. Come succede anche nel teatro, ogni volta che creo un’opera, indosso una maschera diversa e metto in discussione il mio stesso ruolo nell’opera d’arte. Questo processo di continua trasformazione non può avvenire solo attraverso un mutamento della superficie, ma del suo contenuto creativo, così che maschera e viso si scoprono simbioticamente. Il mio percorso come figlio d’artista ha plasmato la mia visione dell’arte e ha contribuito a farmi sentire parte di un continuum creativo.

Blue Thangka. Archival inkjet print on Fine Art Baryta paper. 120 x 80 cm. 2020

Quali tecniche utilizzi?
L’idea di fotografia come dispositivo di sguardo e la sua somiglianza all’occhio umano, mi ha sempre affascinato. Entrambe fotografia digitale e analogica, sono strumenti detrminanti nel mio processo creativo. Mi affiascinano nuove tecniche e strumenti anche fuori da quelli convenzionali, per esempio gli elastici ed il loro lanciarli divengono tecnica per riflettere sull’idea di scatto fotografico, di documentazione dell’astrazione e di rappresentazione dell’energia corporale/fisica. Una collezione di biglietti di trasporto diventano segmenti di pittura, parti di una narrazione più grande; o cerotti vengono usati come strumenti per la realizzazione di linguaggi visivi, collage grafici e plastici.

Elastic (RGB). Acrylic on canvas. 180 x 115 cm. 2020
Campiture. Personal tickets of all transport movements from 2004 till 2019 glued on canvas. 310 x 170 cm. 2019 – ongoing
Mainboard. Plasters on wooden board, acrylic, plexiglass, inox. 50 x 40 cm. 2022

Che importanza hanno i social media nel tuo lavoro?
I social media rispecchiano perfettamente la società di oggi nel suo essere costantemente performativa, produttrice di contenuti a volte totalmente appiattiti a singola superfice ideata e prodotta esclusivamente per stare in un feed. Così a volte sembra che tutto si capovolga, che la vita diventi quasi solo strumento per la creazione di contenuti sui social. Il dispositivo diviene una lente con un campo visivo che restringe lo sguardo e l’immaginazione, così che tutto diventa “claustrofobicamente” rinchiuso in qualcosa semplice da possedere, un cellulare per esempio. Ho comunque un’opinione contrastante a riguardo, poichè anche io sono dentro questo box di cianfrusaglie visive, e non di rado aggiorno il mio feed. I social media mi danno la possibilità di stare in contatto con amici e artisti le cui pratiche artistiche non potrei seguire data la distanza geografica, e viceversa far si che la mia ricerca venga vista nella sua trasformazione anche da lontano.

Glitch. Photography printed on silk. 90 x 150 cm. 2017

Vedere, guardare, osservare, ma prediligi l’assurdo mi sbaglio?
È nell’assurdo del miscuglio che trovo un modo di navigare questa melma attraente e soporifera, in un contesto in cui tutto sembra essere pianificato, ci avviciniamo all’apocalisse che già ci culla; tutto pianificato perfettamente, per far si che non funzioni. Preferisco l’assurdo. Oggi assurdo sembra essere divenuto chiedere scusa o dire grazie. Sembra assurdo il prendersi cura del proprio tempo. …Fai che per assurdo…e l’arte prende forma.

Hai dichiarato che intendi raggiungere il massimo risultato con il minimo sforzo, ma cosa intendi dire e come raggiungi l’obiettivo?
Quando non sei attratto impulsivamente dall’obiettivo, puoi far si che il lavoro avvenga da sé. Ci sono lavori che realizzi senza realizzare, senza stare pensando di fare un lavoro, si compiono di fronte agli occhi prima che il cervello possa interferire con le sue concettualizzazioni. Per creare queste condizioni, citando Heidegger, c’è bisogno di un cambiamento che non riguarda il livello della volontà, ma piuttosto il livello dell’identità. Lo sforzo è nullo; in quel preciso istante dell’apparizione del lavoro, non c’è sforzo. Dov’è c’è stato sforzo nel mio lavoro, non c’è stato niente che sia rimasto importante per il mio percorso artistico.

Mi hai confidato che nel tuo lavoro intendi metterti in relazione con il fallimenti personali, ma perché parti dal senso del limite personale?
Il limite dà il senso dell’appartenenza, è un confine che fa sì che la materia di cui siamo fatti non straripi perdendo una forma fisica. Se i limiti sono troppo poco elastici, si finisce per arrugginirsi, vanno sempre rivalutati, riformati, elasticizzati. Quindi serve sia il limite che il suo superamento, non esiste superamento senza limite, senza confine. Parlo di limite personale, perchè non mi è mai passato per la testa di occuparmi dei problemi biofisici, chimici, biologici, climatici, di qualcuno, o di un gruppo, comunità o classe. (Mi viene in mente una scena di un film di Nanni Moretti, in cui lui scoppia contro I suoi amici gridando che non tutti devono per forza parlare e voler dire la propria sul cinema, come non tutti possono dire la propria sull’ingegneria meccanica, sull’urologia, se non hanno una cultura a riguardo). Mi occupo, non egoisticamente, ma umilmente, del mio limite, del mio fallimento, il fallimento è ciò che ti rende umano, il fallimento come rigenerazione totale, accettazione del sè e delle proprie fragilità.

Fallimento, assenza, caduta e linea obliqua sono sequenziali nella tua visione del mondo, perché?
C’è stato un periodo nella mia vita, (non è una predica), in cui visualizzando, ascoltando, senza giudizio la condizione di fallimento, di assenza, di caduta, sono riuscito a fare più passi avanti, oltre la coltre di ghiaccio che mi cristallizzava, di quanti non ne avessi fatti prima. Fare leva su di essi, significa dare una rivincita all’essere mortali, all’essere fragili come fili d’erba. Non conosco un’artista, che si possa definire tale, che non abbia assaporato e trasformato la propria caduta in slancio verso l’infinito presente.

C’è sempre un non so che di ironico nelle tue opere, in quali lavori sei stato più provocatorio?
Non penso sia particolarmente provocatorio il mio lavoro. Forse quando durante il Master of Fine Arts a Den Bosch, ho finito tutte le cartucce delle stampanti dell’università, e terminato tutti I fogli A4 per stampare delle mie mani scansionate mentre schiocchiavano le dita infinite volte Some Clicks; questo faceva parte del progetto di fine anno. O forse quando ad una mostra in un museo di Dusseldorf, ho presentato un berretto Agfa, marca di pellicole fotografiche, su un termosifone acceso. Il lavoro si chiama Agfa Agfa, che mi ricorda il bambino Alfa Alfa della trasmissione americana “Simpatiche canaglie”.

Some Clicks. A4 prints. 2016
Agfa Agfa. Cap on heat radiator. Variable dimensions. 2018

Che funzione hanno i titoli nelle tue opere?
Il titolo spesso, conclude il lavoro, a volte fa fare un giro per poi tornare al mittente, il lavoro stesso; altre volte completa e aggiunge uno o più livelli di lettura, cui si vuole far porgere una particolare attenzione. “Detournement”, titolo di un lavoro fotografico/scultorico. Da Wikipedia: Détournement is similar to satirical parody, but employs more direct reuse or faithful mimicry of the original works rather than constructing a new work which merely alludes strongly to the original. Dopo avergli fatto fare un giro tra i vari organi, il titolo porta lo spettatore dritto al cuore del lavoro.

Quando hai cominciato ad utilizzare gli elastici e cosa sottendono sul piano concettuale?
Nel 2015 circa, dopo aver collezionato qualsiasi elastico incontrassi per la mia strada per oltre cinque anni senza saperne il perchè. Per me gli elastici, fisicamente parlando, sono delle estenzioni dei miei arti, trasmettitori di energie e frequenze, dal punto di vista concettuale torna l’idea di elasticità, di possibilità di cambiare forma, tenere insieme qualcosa ma allo stesso tempo, possibilità di trasformazione della propria identità in base a quello che avvolgono. Hanno quella qualità di cui parlavo prima rispetto i limiti ed i confini. Gli elastici sono delle freccie da tiro con l’arco, ridimensionate per essere utilizzate all’interno di uno studio. Ricordano il giocare in classe, tra cerbottane fatte con le penne bic, e fionde con elastici e gomme. Molecole micro e macro di un universo che è sia dentro che fuori di noi.

Cosa significa per te essere contemporaneo?
Significa occuparsi al cento per cento del momento presente, essere un’artista contemporaneo, oltre alla precedente osservazione, significa avere troppi avi per rendere conto e ragione a tutti, ma sapere che sono e sono stati presenti, anche silenziosamente, nel proprio lavoro è fondamentale per potersi pensare artisti contemporanei.

Sei solito condividere progetti con altri artisti?
Si, visto che di progetti da solo non ne ho mai realizzati, a parte stare in studio per lavorare sul mio lavoro artistico, potrei affidarmi al curriculum per elencare le infinite collaborazioni che ho condiviso con amici e artisti da tutto il mondo negli ultimi anni e collettivi, ma non lo faccio. Sono stanco.

In quali lavori pensi di aver raggiunto il massimo risultato con il minimo sforzo?
Meditazioni, Tre contro uno, Accidental Nap, Calze che Piangono, Elasticograffiti.

Meditazioni (I) (II) (III). Brooms. 140 x 60 x 8 cm, 120 x 25 x 5 cm, 130 x 25 x 5 cm. 2014 – 2015
Accidental Nap. Archival Inkjet print on Luster paper. 100 x 70 cm. 2022

Cosa consigli di fare a un giovane che intende fare l’artista ?
Rimanere giovane ed essere artista della propria vita.

A quale progetto stai lavorando attualmente?
Sto lavorando a diversi video, piccoli narrazioni oniriche ad occhi aperti. Poi sto lavorando su alcuni giochi elastici e per finire, che è quello che mi sta prendendo più tempo, è l’organizzazione del mio nuovo studio sito in centro storico a Palermo.

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