Quale confine tra arte e artigianato? Di questo, e di altro, abbiamo discusso con Emanuele Scuotto, artista campano che, con un passato di figurinaio, ha intrapreso da pochi anni un sorprendente percorso di artista contemporaneo.
Come i tuoi fratelli, con cui negli anni ‘90 hai fondato La Scarabattola, provieni dal mondo dell’artigianato. Come sei diventato artista? Che cosa è stato determinante?
Terminati gli studi al liceo artistico di Napoli, ho seguito i miei fratelli maggiori nell’avventura di costruire il laboratorio “La Scarabattola” nel centro antico della città. Laboratorio incentrato prevalentemente sulla rivisitazione in chiave moderna della tradizione presepiale ma aperto, da sempre, a svariati progetti interdisciplinari, tanto che oggi è un punto di riferimento culturale della città. Non mi sono mai posto il problema della categoria, il mio lavoro è sempre stato legato all’argilla e al modellato e l’ho sempre affrontato libero da preconcetti. Di solito, a chi mi chiede se sono artista o artigiano, rispondo: “sono uno scultore”. E per gioco dico di vivere in una sorta di limbo perché considerato spesso artigiano dagli artisti e artista dagli artigiani.
Tra l’altro, dopo una ventennale carriera a quattro mani con Salvatore, con cui hai esposto come collettivo SCU8, hai di recente intrapreso un percorso solista. Per quali ragioni?
Ho scelto il lavoro della scultura da ragazzino ed ho iniziato guardando e seguendo Salvatore. Abbiamo poi lavorato insieme, e spesso quattro mani, per più di 20 anni. Credo quindi che l’esigenza di separarsi, condivisa e maturata negli anni, sia stata fisiologica.
Nietzsche, citato in un tuo catalogo da Azzurra Immediato, scriveva che “ciò che contraddistingue le menti veramente originali non è l’esser i primi a vedere qualcosa di nuovo, ma il vedere come nuovo ciò che è vecchio, conosciuto da sempre, visto e trascurato da tutti”. È per questo motivo che, anziché inseguire le sirene del contemporaneo, realizzi sculture “antiche” quanto a tecniche, soggetti, materiali?
Non mi ha mai appassionato l’idea della ricerca della “novità”, del fare qualcosa che “non è stato mai fatto prima”. A mio parere, seguendo queste strade si rischia di finire nella “trovata” fine a se stessa e si diventa prigionieri di soluzioni o, peggio, dello “stile” che si è trovato. Di base credo che bisogna essere onesti, credo che bisogna lavorare e dire la propria attraverso il linguaggio che più ci fa sentire a nostro agio e coerenti con noi stessi. Per me non è “antica” la forza espressiva di tante sculture che fanno parte dell’immenso patrimonio artistico italiano, anzi è fonte inesauribile di stimoli. Si può guardare alla produzione artistica senza bisogno di legarsi alla data di realizzazione ed avere riferimenti tanto alla pittura bizantina quanto alle più recenti video installazioni.
Se dovessi descrivere in poche righe la tua arte, come la definiresti?
Le mie opere sono un viaggio tra memoria e immaginazione. Cerco di modellare sculture dal forte impatto evocativo che riescano a modificare la percezione anche dello spazio che le circonda, creando una sorta di luogo liminale nel quale il passato, il presente, la realtà e il sogno, il mito e la storia si fondono e diventano un tutt’uno.
La tua ultima mostra è un viaggio al termine della notte nel sottosuolo di Napoli, cioè nella memoria: molte tue opere sono collage di frammenti come Santa Lucia, o oggetti “restaurati”, risarciti dalle ingiurie del tempo con inserti preziosi come Ex voto.
L’intento della mia ultima mostra, “Memorie ipogee”, è stato proprio questo: compiere un viaggio nel sottosuolo, inteso come grembo generatore, nel quale le sculture e le installazioni, inserite nello spazio labirintico e sotterraneo del museo Arcos, accompagnino il pubblico in una dimensione onirica legata al mondo culturale popolare napoletano, al suo straordinario immaginario che proprio nel sottosuolo si è sviluppato. È un immaginario che cerco di rendere tangibile attraverso la scultura. I frammenti “preziosi” che compongono alcune sculture sono un accento sul racconto che il soggetto rappresenta e che, ovviamente, può avere diverse letture. Ex voto così come Santa Lucia e ancora di più Anime del Purgatorio parlano di storia e di storie che vengono da lontano ma che sono metafore dei nostri tempi. L’esempio più facilmente leggibile è l’installazione dedicata al culto delle anime del Purgatorio. Il riferimento iconografico è sia alla produzione artistica seicentesca legata al tema sia alla produzione popolare degli altarini, ancora oggi visibili nelle strade partenopee. Diversamente dall’iconografia tradizionale, però, le mezze figure imploranti sono avvolte dall’acqua del mare e non dalle fiamme: un chiaro riferimento al dramma del Mediterraneo, diventato una grande fossa comune. Proprio come gli ossari sui quali dal 1600 si è sviluppato questo culto spontaneo, ancora oggi praticato – seppur in minima parte – per prendersi cura di “anime” anonime conservandone così, in qualche modo, la memoria.
Altri lavori, come il tuo busto di San Gennaro, sono come piegati dal vento, da una tempesta emozionale. Sbaglio o la grande tradizione barocca, a cominciare dai maestri napoletani, è un riferimento costante?
Il barocco napoletano è sicuramente un riferimento costante nel mio lavoro. Sono cresciuto e mi sono formato in questa città che ha vissuto in quel periodo la sua età dell’oro riguardo alla produzione artistica. Non l’ho mai considerata una zavorra ma, al contrario, un riferimento sempre ricco di spunti. Una mia opera esposta anche nell’ultima mostra che ha come titolo Monolite barocco, oltre a giocare sul contrasto tra forma geometrica monolitica e esplosione di satiri e putti dalle forme tondeggianti, è un mio omaggio ad uno scultore barocco siciliano, Giacomo Serpotta.
Tratti spesso soggetti religiosi. Quale è il tuo rapporto con il sacro?
Non sono credente, non sono nemmeno battezzato. Mi interessa, però, da sempre tutto quello che è legato al culto, soprattutto quello popolare. Del resto, soprattutto la scultura, senza una dimensione spirituale (che prescinde dal credo specifico) è per me solo un oggetto da arredo.
Parliamo un poco del processo. Come nascono le tue sculture dall’idea, al primo abbozzo, alla realizzazione finale?
Sono rari i giorni in cui non tocco l’argilla e, solitamente, mi trovo a lavorare su più cose contemporaneamente. Questo sia per una questione tecnica – perché la creta ha diversi stadi e c’è bisogno di aspettare che perda un po’ di acqua e diventi meno appiccicosa – e sia perché serve staccare spesso lo sguardo per essere, poi, più lucidi nel portare avanti il lavoro. Raramente faccio bozzetti, ci penso molto, guardo tantissime cose ma quando ho le idee chiare su quello che voglio fare parto direttamente, senza fare prove. Del resto l’argilla un po’ ti concede la possibilità di modificare le forme durante il lavoro, se ci sono dei ripensamenti. È un lavoro lungo e sono felice quando posso portare avanti le sculture senza avere l’ansia di doverle finire in un tempo determinato. Questo non solo per il modellato ma anche per la patina che scelgo per ultimare la scultura. Sul San Gennaro, ad esempio, credo di averci lavorato per mesi. Feci la scultura modellando la mitria con la tecnica etrusca del colombino, che era l’unica soluzione per sfidare le leggi della gravità e far mantenere il copricapo senza sostegni. Poi, una volta cotta, ci ho lavorato tantissimo tempo, aggiungendo e togliendo colori e foglie metalliche per arrivare a quella stratificazione che mi convinceva.
Sei soddisfatto di come la tua arte viene letta? Chi l’ha interpretata meglio e chi invece ha preso una cantonata? Che rapporto hai con i critici e con la stampa?
Ho iniziato questo mio nuovo percorso nel 2019 e, calcolando i due anni di pandemia (nei quali non sono riuscito a concentrarmi né a produrre nulla di interessante), i rapporti con stampa e critici li sto costruendo ora e sono più che soddisfatto delle esperienze fatte e che mi sono capitate fin qui. Cantonate non ce ne sono state e una cosa che finora mi ha dato molta soddisfazione è la trasversalità del pubblico che si è interessato al mio lavoro. Dagli addetti ai lavori ai bambini o ragazzini che ho visto passare al museo Arcos, non ho mai avvertito superficialità nel giudizio. Mi piace pensare che è stato un buon inizio.
Che cosa pensi della scultura italiana, è viva o morta?
Ho conosciuto delle realtà interessanti proprio attraverso questa rubrica e il fatto che si parli di scultura dà speranza a chi, come me, si sente un po’ come gli animali in via di estinzione. Ho l’impressione che ci sia di nuovo fermento, dopo anni in cui la scultura sembrava un linguaggio ormai seppellito (tanto che, anni fa, mi arrivò la notizia che all’Accademia di Belle Arti di Napoli il corso di scultura non esisteva più. Ora, invece, è stato ripristinato).
E del nostro sistema di musei e gallerie, a cominciare da quello della città in cui vivi?
Credo che stiamo vivendo un periodo di grande confusione, sia a Napoli che altrove. Volendo generalizzare, ho l’impressione che il sistema delle gallerie e dei musei si sia per troppo tempo chiuso in se stesso, creando circoletti sempre più ristretti, perdendo così il contatto con la realtà e, man mano, perdendo anche fette sempre più consistenti di pubblico.
Si è molto dibattuto i mesi scorsi sulla commercializzazione del patrimonio culturale. Ti sembra giusto sfruttare a scopi pubblicitari i capolavori del passato, dalla Venere di Botticelli al David di Michelangelo?
Più che considerare se si possa o non possa fare, il problema, per me, è nella bassa qualità e nella banalità con la quale si fanno queste cose. Ma da tanto tempo, purtroppo, contano i numeri: pure nel mondo dell’arte e della cultura si impone la stessa regola. Non si fa nulla per rendere consapevoli le persone del patrimonio artistico e non si considera che questo patrimonio potrebbe e dovrebbe servire alla crescita culturale della società (che porterebbe comunque anche ricchezza economica), ma tutto è fatto in virtù del numero dei biglietti venduti, dei like, dei follower e dell’esercito di persone armato di cellulare pronto al selfie.
A cosa ti stai dedicando, a cosa ti dedicherai?
L’ultima mostra al museo Arcos è stata una piccola antologica e, per me, la chiusura di un capitolo. Ho iniziato a pensare a nuovi lavori e credo che tra pochissimo tempo inizierò una nuova avventura, fatta di terracotta e ferro.