Ha cantato tutto Sinéad O’Connor, la fede, la paura, il coraggio: la vita. È morta, a 56 anni, dopo anni avvolti da un’oscurità impenetrabile, la regina delle anime in pena
Il suo ultimo album pubblicato è del 2014, I’m Not Bossy, I’m the Boss: in Take me to church canta di rinascita: «I don’t wanna be that girl no more, I don’t wanna cry no more, I don’t wanna die no more», parte per un nuovo tour. Nel 2016 scrive sulla sua pagina Facebook: «I have taken an overdose. There is no other way to get respect. I am not at home, I’m at a hotel, somewhere in Ireland, under another name. I’m such a rotten horrible mother and person, that I’ve been alone. Howling crying for weeks». La polizia la trova e la porta in ospedale. Nel 2017 un altro messaggio su Facebook, un video stavola: «Sono da sola, maltrattata da tutti e malata. Le malattie mentali sono come le droghe. Vivo in un motel Travelodge in New Jersey, da sola, e non c’è niente nella mia vita eccetto il mio psichiatra che mi tiene in vita. Le malattie mentali sono uno stigma. All’improvviso, tutte le persone che dovrebbero amarti e prendersi cura di te ti trattano male». Nel 2022 un altro colpo, durissimo, stavolta un annuncio su Twitter, l’addio a uno dei suoi quattro figli, Shane, allora 17enne. Era ricoverato in una clinica psichiatrica, poi la fuga, poi il silenzio, e infine il ritrovamento del corpo senza vita. E volendo, andando a ritroso, si potrebbe tracciare una mappa fitta fitta fatta di traumi e di abusi, dalla madre violenta all’adolescenza tra collegio e riformatorio. Lei racconta tutto, senza vergogna, nella sua autobiografia, Remembering, uscita nel 2021.
1987, con l’uscita di The Lion and the Cobra è subito chiaro che quella di Sinéad O’Connor è una voce destinata a restare, la voce di una generazione, dice qualcuno: è qualcosa di nuovo, di inaspettato, con Mandinka, Jerusalem e Troy impone il suono di un’urgenza, quella del diritto alla rabbia. Idiot Wind di Bob Dylan è la sua prima ispirazione, poi, a caricarla, è arrivata anche la rabbia del punk – Sex Pistols, Stiff Little Fingers – ma la scintilla è stata quella di Bob, arrabbiato e onesto. E lei, sul finire degli anni ‘80 dominati dai Duran Duran e dalla musica pop, emerge con canzoni che sollevano sentimenti che mettono la gente a disagio. Con il successivo I Do Not Want What I Haven’t Got e una canzone che non le appartiene, Nothing Compares 2 U, ecco arrivare il successo planetario. Prince aveva scritto quella canzone nel 1985 per uno dei suoi tanti progetti paralleli, il gruppo The Family, ma passa inosservata fino a quanto Sinéad ne incide una propria versione, trasformandola in una smash hit. Prince lo vive come un affronto, la sgrida, la insegue. Lei scappa. Ma ormai la canzone, per tutti, è quella di Sinéad. Ma anche quel successo non le appartiene, si rifiuta di andare ai Grammy, lei si dimostra fin da subito un’artista intransigente, disinteressata al consenso del pubblico e dei media, è coraggiosa, indomita, come la sua musica. È come Davide contro Golia, ma non se ne rende conto.
Sull’onda di quel successo tutti gli occhi sono su di lei, l’astro nascente del nuovo rock irlandese. Quando, ospite al SNL nell’ottobre del 1992, strappa una foto di Papa Paolo Giovanni II… Apriti o cielo! Sinéad O’Connor è pazza. Sinéad O’Connor è ingestibile. Sinéad O’Connor è un pericolo pubblico. Sinéad O’Connor è un’eretica. Sinéad O’Connor è una sociopatica. Nell’introduzione della sua autobiografia racconta di ricordare poco e nulla di quanto successo in seguito, negli anni ‘90: «Nei 10 anni dopo quella performance del Saturday Night Live, il modo in cui sono stato trattata è stato scioccante. Era di moda trattarmi male, che tu fossi a letto con me, in uno spettacolo televisivo, a un concerto o a una festa. Tutti mi hanno trattato come se fossi una pazza stronza perché ho strappato la foto del Papa. […] ed è per questo che non ricordo; è stato un periodo terribilmente doloroso». La cantante non si pente di nulla, avrebbe rifatto tutto, ma su di lei, subitaneamente accolta come nuovo orgoglio della cattolicissima Irlanda, l’effetto è stato devastante. Nata come cantante di protesta, sente di essere diventata famosa per errore, il successo la travolge e lei non lo capisce. È un’enorme lente di ingrandimento: frustrazione, ansia, irrequietezza, tutto si acutizza. Quella canzone balzata al numero uno per lei è una rovina, la carriera stroncata dallo scandalo della foto diventa la sua salvezza: ritrova la sua identità di cantante scomoda, ai margini. Quella che ha strappato sul palco era l’unica fotografia appesa nella camera della madre, morta quando la cantante aveva 18 anni, l’ha tenuta con sé per anni in attesa di capire cosa farne. E in diretta TV decide di distruggerla, per denunciare la violenza degli abusi subiti da una madre violenta (che la faceva sdraiare a nuda per terra e la colpiva con la scopa tra le gambe, che la costringeva a rubare le offerte in chiesa), il silenzio della Chiesa sugli abusi dei preti pedofili, la legittimazione di tutto da parte dello Stato.
Ma nonostante tutto la sua fede in Dio è incrollabile. Lei attacca la chiesa, il Vaticano, il Papa, ma Dio no. Dio lo cerca, lo interroga. Nel 2017 cambia il suo nome all’anagrafe in Magda Davitt, poi nel 2018 in Shuhada’ Davitt, a seguito della sua conversione all’Islam, anche se continua a pensare che Dio e la religione siano due cose distinte: «la religione è un cazzo di strumento del diavolo. È una cortina fumogena».
Dopo il SNL del 1992 seguono altri dischi, altrettanto arrabbiati e altrettanto belli quanto i primi. Nel 1994 Universal Mother, dove canta Fire on Babylon (She’s taken everything I liked, She’s taken every lover oh, And all along she gave me lies, Just to make me think I loved her), un pezzo incendiario in cui campiona Miles Davis (anticipando di un anno le sonorità trip hop di Army of me di Bjork), e Thank You for Hearing Me, rarefatta e ipnotica come una preghiera. Fede e spiritualità continuano a seguirla nella sua produzione artistica, nel 2000 pubblica un album intitolato Faith and Courage, per la copertina di Throw Down Your Arms, album di cover roots reggae del 2004 sceglie una sua foto della prima comunione, a cui fa seguito nel 2007 Theology, lo intitola così perché avrebbe sempre voluto scrivere un libro di teologica, ma non può, dice, perché non ne è capace, quindi le tocca cantare. Incide e protesta, incide e denuncia, punta il dito contro l’industria discografica, che ha fatto di tutto per spremerla prima e neutralizzarla poi, vede in Amy Winehouse e Britney Spears lo stesso trattamento che le è stato riservato: «Quello che hanno fatto a Britney Spears è disgustoso. Se incontri per strada uno sconosciuto che piange dovresti abbracciarlo, non iniziare a scattargli foto, no?».
Dopo l’isterectomia a cui è sottoposta nel 2015 si apre un nuovo baratro, deve interrompere i concerti, seguono tentativi di overdose, vagabondaggi, il dolore è tale che non riesce più nemmeno a cantarlo, a dargli voce. Supera la pandemia e vive questi ultimi anni tra una clinica psichiatrica e un piccolo villaggio su una collina irlandese; ha arredato il suo cottage con sedie scomode, dice che le ha comprate apposta per evitare che gli ospiti si fermino troppo, è fortunata perché le piace stare in compagnia di sé stessa.