Quaranta giovani artisti riuniti sotto il segno del “potere all’immaginazione”; due curatori che insieme – a Roma – hanno costituito Spazio Taverna; una città che è sede della seconda Biennale più antica d’Italia, dopo quella di Venezia: siamo a Gubbio, e la sua manifestazione principale, la Biennale appunto, tornerà questo autunno dopo quasi 10 anni (l’ultima edizione fu nel 2016), sotto il titolo di “IMAGINA“.
A ridare vita alla kermesse Marco Bassan e Ludovico Pratesi, Spazio Taverna, appunto, in una mostra che avrà diversi spazi espositivi attraverso i quali si dipaneranno diversi temi: dalle sculture di Lucas Memmola, Antonio Della Guardia, Giulio Bensasson, Davide Sgambaro, Ruth Beraha, Gabriele Silli, Gianluca Brando, Serena Vestrucci, solo per dirne alcuni, alle opere site specific di Gabriella Siciliano, Lulù Nuti, Marco Emmanuele, Paolo Bufalini, Davide Stucchi, Andrea Mauti, Helena Hladilova, fino alle opere in dialogo con la quadreria di Palazzo Ducale di Rachele Maistrello, Sonia Andresano, Anouk Chambaz. L’appuntamento è a partire dal 15 ottobre e fino al 30 aprile. Ecco la nostra prima intervista ai curatori.
Come è nata l’idea di riprendere la Biennale di Gubbio?
Marco Bassan: Gubbio è una città che ha un fortissimo legame con la propria storia.Lo scorso anno si sono tenute le celebrazioni dei 600 anni dalla nascita di Federico da Montefeltro , con una grande mostra diffusa nei luoghi emblematici della città; ogni anno il Festival Medioevo attira studiosi da tutto il mondo e la comunità eugubina tiene viva, anzi vivissima, la Festa dei Ceri che, ben lontana dall’essere una rievocazione storica, incarna appieno il rapporto che la città ha con la propria tradizione. La Biennale di Gubbio, nata nel 1956 , rappresenta un modo estremamente coraggioso di integrare tutto questo enorme patrimonio con l’attualità. Infatti, come la festa dei Ceri dimostra, gli eugubini sono abituati ad abitare la propria storia e rinnovarla costantemente. La Biennale rappresenta il desiderio che quest’amministrazione ha avuto di rinnovare un dialogo con il futuro, che mancava da oramai sette anni .
Il genius loci rispetto al territorio, si legge nello statement della mostra, è fondamentale: pensi che l’arte italiana debba ritrovare un’appartenenza al proprio paese?
Ludovico Pratesi: Da una parte portare l’arte contemporanea in territori fortemente caratterizzati dalla memoria del passato – come nel caso di Gubbio – è un’operazione delicata, che va condotta cercando di coinvolgere il più possibile la cittadinanza. Credo che dopo la pandemia l’esterofilia che ha caratterizzato le istituzioni museali italiane vada fortemente ridimensionata. Oggi è quanto mai opportuno credere negli artisti italiani e farli crescere attraverso occasioni istituzionali, che sono state troppo rare negli ultimi decenni. Basti pensare che l’ultima mostra collettiva dedicata all’arte italiana emergente dal Maxxi, “Apocalittici e integrati”, curata da Paolo Colombo, risale al 2007, quando il museo di Zaha Hadid non era ancora terminato. Il premio Maxxi Bulgari – iniziativa eccellente e meritoria – non può essere l’unico appuntamento che il Museo Nazionale per le Arti del XXI secolo dedica agli italiani emergenti. Il nostro paese deve fare di più e con maggiore convinzione e consapevolezza per sostenere i nostri artisti sulla scena internazionale, dove sono ancora poco presenti.
La mostra sarà diffusa, affondando vari sotto-temi per le due “tracce” principali: la dimensione umana e quella disumana/divina/trascendente: come mai la scelta è ricaduta su questa misura?
Marco Bassan: L’arte contemporanea italiana è erede di una grande tradizione culturale che ha lasciato alla modernità una enorme eredità, non ancora affrontata appieno da parte degli artisti delle ultime generazioni. Gubbio racconta in maniera estraneamente sintetica questa tradizione, mostrando a chi la visita la forza trascendentale del medioevo e la potenza rivoluzionaria dell’umanesimo rinascimentale. Permettere agli artisti di confrontarsi su queste tematiche significa dare la possibilità di sfidarsi con i grandi maestri che hanno dato vita a questa tradizione. Questo perché gli artisti italiani subiscono un’enorme pressione rispetto ai loro colleghi internazionali, dovendosi confrontare con una molteplicità di giganti che hanno definito per molti secoli i principi della storia dell’arte occidentale. Poter superare e uccidere questi maestri è l’unica via per far sì che l’Italia possa nuovamente esportare una narrazione contemporanea della realtà.
Entrando più nel dettaglio di spazi e partecipazioni, si scopre che la Biennale avrà un piglio decisamente “place-specific”: è l’unica strada percorribile per una manifestazione come una Biennale, oggi?
Marco Bassan: I luoghi sono potenziali energetici capaci di sprigionare molti significati per l’artista che decide di confrontarcisi.In questa Biennale abbiamo deciso di incentrare il concept curatoriale sulla capacità dell’arte contemporanea di riattivare e ricucire il rapporto che un territorio ha con i propri luoghi iconici, proponendo opere che abbiano la capacità di innescare in spazi e monumenti antichi nuovi significati, permettendo alle generazioni attuali di riappropriarsene in una forma viva e futuribile. Ognuna delle sette sezioni della Biennale ha dei vincoli e dei vantaggi che pongono gli artisti di fronte a sfide differenti, legate ai concetti che hanno dato vita ai luoghi che le ospitano. Per esaltare gli spazi dei grandi saloni medievali e rinascimentali di Palazzo dei Consoli e Palazzo Ducale è stato chiesto agli artisti invitati di confrontarsi con tematiche specifiche. In altre tre sezioni il confronto con gli edifici viene ampliato attraverso il dialogo con importanti collezioni permanenti: le tavole eugubine e la collezione tibetana nel palazzo dei Consoli e la pinacoteca nel palazzo Ducale, mentre la sezione site-specific invece lascia libera interpretazione agli artisti di alcuni luoghi particolarmente significativi del palazzo Ducale. Infine la sezione corporazioni amplia il concetto di place-specific a tutta la città di Gubbio grazie alla collaborazione con le maestranze artigianali e industriali del territorio: in questa epoca di tramonto del nichilismo, place-specific significa costruire un legame fondamentale tra l’arte contemporanea e le necessità del contesto socio/economico dal quale emerge.
Ci dici qualcosa in più sulla scelta del titolo, “Imagina”?
Ludovico Pratesi: La parola è una crasi tra ”immagine” e “immagina” , e indica il rapporto tra l’immagine artistica e il suo potenziale legato alla capacità di attivare l’immaginazione delle persone. L’arte possiede una valenza simbolica e visionaria molto forte, che permette di interpretare la realtà con chiavi di lettura originali e spesso futuribili, che in momenti storici turbolenti come quello attuale appaiono necessari per comprendere le sfide che ci riserva il futuro.