“Ci devi credere però, altrimenti il film non funziona” è il commento che risuona tra il pubblico all’uscita dalla Sala Grande del Lido di Venezia dopo la proiezione di Dogman (2023), il nuovo film di Luc Besson in concorso alla 80esima Mostra Internazionale del Cinema. La sospensione dell’incredulità è effettivamente un requisito fondamentale per poter apprezzare l’ultimo lavoro del regista francese, ma una volta superato questo ostacolo Dogman è un film al tempo stesso emozionante e in grado di offrire spunti di riflessione.
Protagonista del racconto è Douglas, figlio di un organizzatore di combattimenti fra cani: a causa dell’avversione che manifesta nei confronti della decisione del padre di ridurre alla fame gli animali al fine di renderli più aggressivi, finisce per essere rinchiuso in una gabbia insieme ad essi. Sul punto di essere liberato grazie all’intervento della polizia, Douglas rimane paralizzato agli arti inferiori per via di un colpo di fucile sparato dal padre.
“Che vita puoi avere dopo essere stato chiuso in gabbia dai tuoi stessi genitori?” è la domanda da cui Besson parte per scrivere la sceneggiatura di Dogman, ispirata a un fatto di cronaca realmente accaduto. Incontriamo Douglas – interpretato da un istrionico Caleb Landry Jones, in grado di regalare una performance tanto esuberante quanto perfettamente calibrata – quando la sua parabola di vita sta volgendo ormai al termine: aprendosi con la psichiatra Evelyn, interpretata da Jojo T. Gibbs, il protagonista ripercorre il proprio passato prima di fare i conti con il proprio, imminente, futuro.
Il paragone con Joker, il film di Todd Phillips interpretato da Joaquin Phoenix che nel 2019 vinse il Leone d’Oro, è presto fatto: maledetto dal fato, presto anche Douglas, come Joker, si trasforma un outsider completamente emarginato dalla società. Se però Joker, persa la madre, unico riferimento rimastogli, entra in un vortice di violenza anarchica e autodistruttiva, Douglas in Dogman fa di tutto per trovare il proprio posto nel mondo nonostante le avversità, cercando rifugio da un lato nella cieca lealtà che solo i cani di cui si prende cura sono in grado di garantirgli dall’altro nelle proprie capacità performative. Introdotto al teatro (in particolare a Shakespeare) da una ragazza che ama senza essere ricambiato, riesce infatti ad esprimersi appieno solo esibendosi in un locale di drag queen: la sua performance vocale nei panni di Edith Piaf – durante la quale è in grado di ergersi in piedi nonostante la paralisi alle gambe –, è tra i momenti più toccanti del film.
In Dogman la tematica che più stupisce è il rapporto dei personaggi con la religione: è credente il padre che lo chiude in gabbia da ragazzo, è credente anche il fratello che non fece nulla per aiutarlo, anzi. E quella di Dio sembra davvero una presenza costante, una sorta di spettatore insensibile al dolore che affligge da sempre la vita di Douglas. Eppure, proprio quando la sua vita è più a rischio, è lui stesso a notare come lassù qualcuno, in fondo, sembri stare dalla sua parte.
L’incontro-scontro finale tra Dio e Douglas è più forte che mai: andando verso l’epilogo della sua vita – la camminata sbilenca esibita da Landry Jones è il frutto di infinite prove con il regista, come Besson stesso rivela al Lido durante la conferenza stampa del film – l’uomo, che non è più disposto a vivere, vede la sua ombra fondersi con quella di un crocefisso posto in vetta a una chiesa. Annichilito dalla propria sorte, Douglas sembra riconoscere nella figura di Dio l’ultimo possibile interlocutore a cui rivolgersi.
Dogman non è un film perfetto: dopo una prima parte di alto livello, perde qualche colpo in lunghe scene in cui un turbinio di cani di razze diverse fa da protagonista. È presto per dire se Besson tornerà da questa sua prima avventura veneziana con qualche riconoscimento in tasca. Ciò che è certo è che Dogman merita di essere visto e creduto, al di là del bilancio che ognuno può fare al termine della visione. Allo stesso modo in cui Douglas, nonostante tutto e tutti, crede fino alla fine: non importa se in Dio, nei suoi cani o in sè stesso.