Da Cooper a Fincher, da Bonello a Woody Allen, a Sofia Coppola: a Venezia passano ancora ottimi film. Con la sorpresa (italiana) Lorenzo Quagliozzi
– Mamma mia quanti film ti devo raccontare! In questi ultimi due giorni è come se il Festival si fosse finalmente imbizzarrito, nella cornice di un meteo perfetto, con cieli azzurri senza nuvole, un venticello fresco preautunnale e dei tramonti rossi che nessuna color correction riuscirà mai ad eguagliare.
– Vediamo se in un’unica cavalcata riesci a parlarmene senza troppe digressioni. Sintetizza più che puoi, ma fammi ugualmente sognare…
– Ci provo. Cominciamo con “Maestro”, il travolgente atto d’amore che Bradley Cooper ha dedicato a Leonard Bernstein, “il primo grande direttore d’orchestra americano” (discograficamente prolifico quasi quanto Herbert von Karajan, che in lui vedeva il solo in grado di contendergli il primato della popolarità) e autore di musica seria, colonne sonore di film famosissimi (“Fronte del porto”) e musical: non credo sia necessario ricordarti che “West Side Story” è roba sua.
– Embè no, dai, fin lì ci arrivo anche io!
– Sì, scusami. Però qui al Lido la sensazione di essere circondato da ignoranti non solo non ti abbandona mai, ma addirittura cresce esponenzialmente ogni paio d’ore…
– Niente digressioni, ho detto!
– Hai ragione. Dunque: diciamo che dopo “A star is born”, filmetto non più che gradevole illuminato dall’ottima prova di Lady Gaga, credevo di non dovermi aspettare quello che poi ho visto l’altra mattina sullo schermo della Sala Darsena: un quasi-capolavoro. Al di là dell’aderenza stupefacente alla fisicità di Bernstein (per fortuna le sciocche polemiche sul naso finto e “antisemita”, appena nate si sono afflosciate da sé), l’urgenza del racconto non fa rimpiangere nemmeno un po’ che a dirigere “Maestro” non siano stati né Scorsese né Spielberg, che si erano passati l’un l’altro l’idea e il progetto di un film che Cooper avrebbe dovuto soltanto interpretare. Fin dalle prime sequenze si avverte un monumentale salto di qualità rispetto alla sua regia precedente: illustrare la vita di un musicista che fu uomo e artista onnivoro sullo sfondo degli anni più belli della storia degli Stati Uniti del secolo scorso (dal bianco e nero degli anni ’40 all’illusorio lucore delle discoteche degli anni ’80, passando per le tinte primarie virate in scuro dei ’50, e lo scoppio della modernità nei ’60 e ’70, variamente ispirandosi agli sguardi dei diversi registi che quell’America hanno magistralmente consegnato alla memoria di chi c’è ancora oggi e ci sarà in futuro – Mike Nichols, Paul Mazursky, Robert Altman, e naturalmente Martin, Francis Ford, Woody e compagni – finché l’AIDS non calò su tutto questo la sua mannaia assassina) orchestrandovi attorno una partitura cinematografica così colorata e intensa di personaggi, situazioni ed emozioni, era impresa di cui, in tutta onestà, mai avrei ritenuto tanto capace il pur volenteroso Bradley Cooper: perciò al termine della proiezione ero, come quasi mezza sala, in lacrime come tutti quelli che in quegli anni hanno vissuto sperando e combattendo per un futuro migliore non solo “per i nostri figli” ma anche per noi stessi. La sensazione che con giganti come Bernstein sia scomparso tutto un mondo più autentico e concreto di creatività e di civiltà fondato su un’etica fondata sulla Natura Umana e non piegata alle attuali regolette dei vari prontuari di utopia applicata del woke e del politically correct (vivaddìo, un film dove “queer” significa “checca”, e non “strano”, “strambo”, “eccentrico” o “Murgia”), spero arrivi anche a chi, nato e cresciuto in questo secolo, possa svegliarsi dal torpore e reagire a quello che sembrerebbe un addomesticamento programmato per distruggere e cancellare la Civiltà Occidentale.
– Niente da fare: non riesci proprio a evitarle, certe digressioni…
– Hai ragione. Ma che posso farci se il cinema, quando è fatto bene, riesce ad azionare quelle valvole cerebrali indispensabili per capire chi sei e di cosa è fatta la vita che stai vivendo? …Tornando a bomba su “Maestro”, lasciami aggiungere che mi è talmente piaciuto da farmi sorvolare sul classico difetto di tutti quei film in cui c’è un attore (da qualche tempo in qua anche un’attrice…) calato nel ruolo di un direttore d’orchestra, ovvero la totale inattendibilità dei gesti dal podio. Nemmeno Bradley Cooper ne è esente, ma tale è l’entusiasmo con cui si è gettato nell’imitazione di Lenny guardando e riguardando i numerosi documenti filmati delle sue esecuzioni, che l’ammirazione per tanto amore ha sorpassato ogni eventuale fastidio. Non posso però chiudere questo commento a “Maestro” senza citare la magnifica prestazione di Carey Mulligan, alla quale, pur se raffigurata di spalle, la distribuzione ha affidato il poster del film: lei è la moglie di Bernstein, amata per tutta la vita di un amore profondo, ma consapevole dell’impossibilità di sopprimere le proprie attrazioni omoerotiche (mostrate nel film con correttissima e spontanea naturalezza). C’è una scena di litigio tra i due, girata nell’appartamento newyorchese dove i Bernstein vissero davvero, affacciato su Central Park all’interno del Dakota Building, che mi resterà nel cuore come tra le più riuscite viste al cinema quest’anno.
– Passiamo a un altro film, dai, che oggi ho un po’ da fare.
– Certo. Vedo di sbrigarmi. E vado come sempre in ordine di visione. “Adagio” di Stefano Sollima prosegue la saga degli Italiani in concorso a Venezia 80. Una mosceria. Lontanissime le luride atmosfere di “Suburra”, il film soffre di una monocordia non sorretta nemmeno da una sceneggiatura ficcante: battute entrate nel mito come “È stata Roma”, pronunciata da Claudio Amendola sempre in Suburra-film, qui te le puoi scordare. Questi squallidi malavitosi parlano l’ormai piatto vernacolo televisivo, farcito di troppi “hai capito?!” e altre caccole varie, come gli attori le chiamano in gergo. Il castone non suggerisce al regista di usare voci e volti tanto diversi per creare una teoria di personaggi debitamente variati e distinti come avverrebbe in qualunque noir americano, anche il meno riuscito. Mastandrea, Toni Servillo, Armando Giannini e l’ormai onnipresente Favino (che tuttavia confesso di aver riconosciuto solo a tre quarti del film) sono tutti tarati sul registro smorzato di una confortevole monotonia drammatica che con la complicità di una colonna sonora noiosa e pachidermica (è a lei che allude forse il titolo del film?) finisce con l’affossare anche le intenzioni di dipingere una Roma apocalittica e lugubre, minacciata da un maxi-incendio realizzato con effetti speciali di scarsa qualità…
– Ciaone anche a “Suburra”. Poi?
– Tutt’altra faccenda è “The Killer”, l’attesissimo David Fincher con Michael Fassbender, assente dagli schermi da 9 anni suonati. Qui la monocordia diventa una scelta precisa di stile di chi è cosciente, però, di saperla mantenere saldamente attraente. Ma non posso fare a meno di confessarti un pizzico di delusione. Beninteso, non è il caso di Omero che si addormenta. Passi due ore in cui resti inchiodato alla sedia, ben scritte e con raffinatissimi e tutt’altro che banali omaggi a Hitchcock e ai James Bond di una volta, che tuttavia non si sollevano mai oltre l’eccellente esercizio di stile, per quanto di lusso: si gode parecchio nell’epilogo (il film è suddiviso in una mezza dozzina di capitoli, o forse 7, non ricordo bene, ambientati in altrettanti luoghi diversi del pianeta, da Parigi a Santo Domingo, da New Orléans a Chicago e New York) col gustoso e sostanzioso intervento di Tilda Swinton, ma si esce dal cinema, come posso dirti?, non del tutto sazi… Un altro po’ di buon cinema, anche se in forma di teleplay, si è visto nell’ultima fatica di William Friedkin, defunto ahimè neppure un mese prima di poterlo venire a presentare fuori concorso qui al Lido, “The Caine Mutiny Court-Martial”, classico, teso, tagliato con colpi di fioretto assestati con rigore, e ambientato per intero all’interno di un’aula del Tribunale della Marina Militare degli Stati Uniti. C’è più cinema in tre inquadrature di questo “The Caine Mutiny”, e negli altrettanti tagli che le giuntano in sequenza, che in tutto il “Ferrari” di Michael Mann…
– Stai andando a ritmo spedito. Continua così.
– Sì sì, tranquillo. Intanto, segnalo forse la prima bomba della Mostra, che in sala ha conseguito un’approvazione entusiastica e unanime, e che lascerebbe indovinare un’attenzione speciale da parte della Giuria, se non per l’oro, almeno per qualche importante Leone secondario: “La Bête” di Bertrand Bonello, passato dal rango di regista cult per pochi affezionati cinefili frequentatori di Festival ad autore fra i più rappresentativi di una cinematografia sempre brillante e esente da crisi come quella francese. Regia spiazzante, storia disturbante, meravigliosa protagonista femminile Léa Seydoux, tutto al servizio di un saggio altrettanto lucido sull’Intelligenza Artificiale e sugli effetti devastanti che può provocare nella quotidianità di tutti noi, vittime sacrificali di un gioco spietato ordito non si capisce bene da chi e perché, ad esclusivo danno del Genere Umano. Quello di Bonello è uno dei pochi cinema contemporanei per il quale si possa parlare di “novità”, riaccendendo il ricordo di quello che fu, per restare sempre in Francia, il cinema fenomenologico di Alain Robbe-Grillet, del quale rievoca forme e modalità come lo schermo spezzato in più inquadrature, cui corrispondono altrettanti salti cronologici in avanti e all’indietro che rendono impossibile sciogliere misteri di per sé senza alcuna soluzione. Lo so, detta così pare una faccenda complicatissima, ma ti assicuro che il pubblico al termine saltava di gioia.
– Finalmente si sente odor di Leone nelle tue parole…
– Un premietto, anche se nell’ambito della Settimana della Critica, lo darei anche a un cortometraggio con il titolo francese, “De l’amour perdu”, che batte tuttavia bandiera italianissima, addirittura prodotto da Paolo Sorrentino. Lo ha diretto un ragazzetto di Roma che dimostra meno dei suoi 24 anni (è venuto lui stesso a presentarlo, con emozione mista a una simpatica scioltezza capitolina), Lorenzo Quagliozzi. Capita di rado che in soli 18 minuti si veda scorrere sullo schermo un cinema di questo spessore, di un’altezza e di una cura coltissime che si fa di solito fatica ad abbinare a un’età così giovane. La storia è quella, assai semplice, di una suora innamorata. Perdutamente innamorata. Di un amore che la bellezza tattile delle immagini e la densità del tocco, del “tono” di questo piccolo film, ti lasciano addosso come una tonaca che stringe e soffoca, e che non vedi l’ora di toglierti mentre rifletti su quali siano i mentori di questo sorprendente cineasta under 25 esente da tutti i vezzi consueti dei giovanissimi diplomati italiani del Centro Sperimentale, e, giuro, i primi a venirti in mente sono Tarkovskij e Sokurov. Non so se mi spiego.
– Una grande sorpresa, accidenti. Italiana, per giunta. …Mi restano ancora due minuti.
– Un po’ poco per parlarti delle altre due bombe di ieri, viste in sequenza per geniale intuizione dei programmatori veneziani.
– Forse so già di chi stai parlando…
– Infatti è facile indovinare: i nuovissimi film di Sofia Coppola e Woody Allen.
– Accidenti! Mi farai fare tardi!
– Ahahah, ma no! Sono talmente belli tutti e due, che è inutile sprecarci sopra tante parole. “Priscilla” è una sorta di miracolo, un film dalla mano accudente e gentile come quella di una saggia e matura sorella maggiore che debba insegnare alla minore come affrontare i piccoli e grandi ostacoli della vita, anche se hai avuto l’immenso culo di essere carina e di aver fatto colpo su Elvis Presley. Al di là della perfezione del “tocco” speciale con cui la Coppola restituisce un periodo della Storia degli Stati Uniti, e dunque dell’Occidente, in cui era lecito ancora sognare e sperare che la vita potesse avere un senso compiuto da ricercarsi nella perfezione degli abiti, delle acconciature, delle grafiche di insegne e riviste, del design e nelle tinte pastello delle carrozzerie delle automobili, e naturalmente nella musica “leggera”, il film pulsa e vive dell’incredibile alchimia dei due protagonisti, gli splendidissimi Cailee Spaeny e Jakob Elordi, coccolati da una regia avvolgente come una canzone di Elvis (del quale molto elegantemente non si ascolta una sola nota per tutto il film), che li accarezza come fossero due bambini mai cresciuti e che mai cresceranno, un po’ come l’America insomma, non solo di quegli anni mitici e dorati. Posso anche fermarmi qui e passare a Woody, perché non farei che ripetere quanto può essere bello e incantevole questo “Priscilla”.
– Vai con Woody, allora. Ce la fai in una manciata di secondi?
– Anche meno. Con Woody è facile. Lui è indiscutibile. Se Beethoven ha composto 9 Sinfonie, lui è arrivato a 50 film. Tutti, come le Nove Sinfonie, indispensabili. E questo “Coup de Chance” chiude il cerchio (se è vero che sarà l’ultimo, anche se alla conferenza stampa lui stesso ha dichiarato di avere in testa un’idea bellissima ambientata a New York…) con un giallo veloce e ineluttabile come la corsa di un treno dentro un tunnel, memore come al solito di tutto il pessimismo greco già presente in “Match Point”. Se infatti là erano il Melodramma e la tragedia antica il fulcro di tutta la storia, qui sono piuttosto Simenon e le partiture colorate di Saint-Saëns e Ravel, capaci di saltare nel giro di una sola battuta dai toni brillanti di un vivacissimo Scherzo a quelli corruschi e fumiganti di una Danse macabre che tutto inghiotte e trascina negli inferi. E poi c’è il francese, la lingua nuova di un cineasta che eravamo abituati ad ascoltare nell’inglese di New York: ebbene, anche quando compone per organici strumentali diversi e più ridotti di una grande orchestra, Beethoven resta sempre Beethoven. Mi sono spiegato, spero. Un capolavoro che qui al Lido ha (finalmente?) messo tutti d’accordo.
– Eppure ho saputo di una manifestazione proprio lì al Lido, contro Woody e Polanski…
– Ho naso e orecchie talmente vicini alle ali che della cacca sparsa per terra non mi arrivano né puzza né notizia.