A Palermo il poeta esule Antonio Arevalo racconta il trauma seguito all’assassinio di Salvador Allende e l’esilio dopo la dittatura in Cile
C’è un’opera teatrale, scritta dalla drammaturga cilena Manuela Infante, messa in scena nel 2008 al festival Quartieri dell’arte nelle scuderie farnesiane del Palazzo di Caprarola. È la storia di una traduzione che diventa un tradimento. Una storia che ha come tema l’ultimo discorso del presidente del Cile Salvador Allende, ucciso l’undici settembre 1973, cinquant’anni fa. Si, è passato esattamente mezzo secolo dal colpo di stato che diede fine all’esperimento socialista di un governo eletto legittimamente e rovesciato violentemente da Pinochet.
Una violenza che si riverbera per anni come l’eco infausta della parola “Eccidio”, dentro il pozzo della memoria, come nell’installazione di un altro figlio del Cile, l’artista Ivan Navarro. Un’opera, quest’ultima, voluta per il suo Micro Museo da un’altra vittima del golpe, Antonio Arevalo. L’esule che oggi – alle ore 17,30 – racconta del suo esilio ai Cantieri Culturali della Zisa di Palermo, per rinsaldare quel legame con il trauma che è stato distorto dalla distanza temporale e da una memoria incalzata dalle esigenze del presente. Questo, è il nodo cruciale che emerge dal lavoro di Manuela Infante: quella distorsione che muta in tradimento e che si perpetra per via della circolazione delle parole di Allende tradotte dalla rete.
Una terra di nessuno
Ecco che, infatti, alla fine dello spettacolo, ciò che ci giunge è un testo distorto e stravolto nei contenuti. Una distorsione da paragonare alla perdita di senso della storia in un paese capace di credere per più del 30% alla positività della dittatura. E di cedere all’oblio nonostante anni di torture, sparizioni ed omicidi. Una perdita cui la post – modernità del Cile cerca risarcimento nel più spicciolo recupero della credibilità internazionale, cassando come utopico e visionario il concreto progetto sociale di Allende, e cedendo alla banalità dell’eterno presente della fiction. I cinquant’anni, che ci separano dall’accerchiamento della Moneda, devono essere riletti nella storia e restituiti perciò all’arte, evitando la celebrazione occasionale che li abbandona nuovamente in una terra di nessuno.
Solo riabilitando il valore del tempo trascorso da quell’11 settembre a questo, si potrebbe restituire il senso di quel progetto. E l’insensatezza della violenza che lo bloccò. Solo riabilitando la storia di un paese che c’era una volta, si potrà definire nuovamente ciò che è ora e che ora siamo. Arèvalo dice ne Le terre di nessuno: “c’era una volta un paese c’era una volta un paese c’è un paese ci sono vari paesi, c’è pure una successione di colpi di stato – che questi paesi – non li lasciano essere paesi” (A. Arèvalo, Le terre di nessuno, Edizioni Ensemble, p. 17).
Maschere meschine
L’Italia è legata a questa storia più di quanto si possa immaginare, lo hanno dimostrato le interviste di Nanni Moretti in Santiago Italia (Sacher Film, 2018, 1h, 20’). Insieme alle molteplici analogie tra quella violenza d’oltreoceano, lontana, e quella vicina a noi, nei cosiddetti “anni di piombo”, celata dietro sigle sempre più simili a maschere meschine di uno o più grandi contendenti. Nel 1988 Pinochet venne sconfitto da un referendum. Eppure resta ad impregnare il tessuto cileno come un fluido maleficamente spiazzante, anche questo è un male comune.