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LA BUSSOLA DI AGO Ma Garrone meritava l’oro…

Io capitano, di Matteo Garrone Io capitano, di Matteo Garrone
Io capitano, di Matteo Garrone
Io capitano, di Matteo Garrone

Riflessioni a freddo sugli ultimi film visti e sui Leoni assegnati alla 80ma Mostra del Cinema di Venezia

– Ma dove caspita eri finito?

– Embè, ho una vita mia, sai, cosa credi?

– Ahahah non lo metto in dubbio, ma mi hai lasciato appeso senza dire più niente né sugli ultimi film del concorso né sui pronostici, che ormai sono già belli che scaduti.

– Li ho lasciati scadere volentieri. Così come ormai è scaduta tutta Venezia. Quasi non se ne parla più. Per vedere il Leone d’oro il pubblico normale dovrà aspettare il prossimo Carnevale, ti rendi conto?

– Effettivamente non s’è mai capito come mai debba passare tanto tempo tra il passaggio a un festival, l’eventuale premio, e l’uscita in sala di un film. Il 25 gennaio chi si ricorderà più di “Povere Creature!”, il nuovo film di Yorgos Lanthimos vincitore del massimo riconoscimento alla Mostra del Cinema di quasi quattro mesi prima?

– E a parlarne con te qui, ora, mi sembra di tirarmela come un maschio bianco privilegiato e suprematista, che ha già visto e sentito tutto quello che c’era da vedere e sentire.

– Adesso però non accampare scuse… Dimmi almeno com’erano i film degli ultimi giorni.

– Ecco, vedi? Ho un buco di memoria. Già non me li ricordo più…

 

Yorgos Lanthimos ed Emma Stone sul set di Poor Thnigs (2023) di Yorgos Lanthimos

– Dovresti aver visto il nuovo Garrone, se non sbaglio…

– Certo che sì. Il magnifico “Io Capitano”, assurto in un battibaleno in vetta alla mia classifica lidense e Leone d’oro del cuore di questa Venezia.

– Ha però vinto l’argento. Dunque ci è andato molto vicino.

– Certo, ma per quanto il verdetto della Giuria sia stato quest’anno meno disastroso del solito, avrei tenuto conto di due cose: la prima, che siamo in Italia, e se almeno uno dei sei (e dico sei!) film italiani in concorso è un’opera di questa statura, beh, mi fai il favore di dargli il massimo premio. Non è campanilismo, o magari lo sarà pure, ma chissenefrega: “Poor things” (o “Povere Creature!”, come si intitolerà quando uscirà da noi l’anno venturo) è senz’altro un film mirabolante, fantasmagorico, eccentrico, di sbalorditiva bellezza estetica, divertente, arguto, provocatorio, insomma ce le ha tutte per scalare le vette dell’Oscar e arrivare “uno”, ma… è anche la dimostrazione che con “La Favorita” Lanthimos ha ormai scelto la strada del divertissement pirotecnico e caleidoscopico, per rincorrere un successo non voglio dire “facile”, ma senz’altro garantito dalla sua capacità di intercettare gli appetiti di spettatori esigenti, colti, raffinati, disposti a lasciarsi imbambolare dalla girandola di dettagli e battute che affollano lo schermo, e non dallo spessore drammatico di opere senz’altro più complesse e impegnative come “Il sacrificio del cervo sacro”. Come potrei storcere il naso di fronte alla reinvenzione dal nulla di un universo grottesco e immaginifico che spazza via – come già ti ho detto l’altra volta – l’armamentario carabattolesco e posticcio dell’horror gotico alla Tim Burton? È più che lecito volersi divertire al cinema, anzi, direi che “divertire” dovrebbe essere lo scopo di ogni disciplina artistica e creativa. Ma quando a giochi fermi arriva dal cielo un meteorite fatto di carne e sentimento come “Io Capitano” il mondo intero si deve inginocchiare per cedere il passo.

– Ma è davvero così bello, “Io Capitano”? Da quel che sento in giro non parrebbe neppure un film di Garrone…

– Ed è qui che la gente sbaglia, commettendo il classico errore di molti nell’atto di accingersi a guardare il nuovo film di un autore che già conoscono: essi “si aspettano” di vedere qualcosa di cui hanno già in testa un’idea precisa tutta loro, elaborata in base ai precedenti film di quell’autore, e se poi vedono – come avviene il più delle volte nel caso di “grandi autori” – qualcosa di completamente diverso, danno tutta la colpa all’inadeguatezza del regista, che “stavolta no, proprio no, non ci ha preso proprio”. La qualità più straordinaria e sconcertante di “Io Capitano” non è infatti la tremenda storia del viaggio della speranza di due ragazzi senegalesi da Dakar fino alle coste siciliane in cerca di quella fortuna che a centinaia ogni settimana i migranti d’oltremare vengono a cercare in Italia e in Europa: di questo in fondo già ci raccontano da anni i giornali, la televisione, e anche il cinema, con risultati alterni. Ciò che stavolta compie Garrone è un gesto titanico di umiltà, quell’umiltà che non siamo abituati a riconoscere nei “Grandi Autori”, apposta perché li vogliamo grandi, riconoscibili, convinti e luminosi come fari che indichino senza riserve una direzione: Garrone depone il “suo” cinema, e decide di adottare i toni più semplici e diretti di un cinema “per tutti”, che arrivi, cioè, al cuore di chiunque senza il bisogno di passarne al vaglio le venature intellettuali. Lo stile del racconto è classico, l’empatia con i volti e i corpi dei protagonisti è di un’aderenza totalizzante, i concetti di “vita” e di “morte”, di “mamma”, “amicizia”, “dolore”, “tortura”, “lavoro”, “dignità umana” sono espressi a chiare lettere in termini cinematografici che non possiedono nel proprio stesso DNA alcuna enfasi, alcuna retorica, e perciò ci afferrano il cuore solo ed esclusivamente grazie alla qualità dello sguardo di chi ha scelto di raccontarceli senza filtri e additivi. La naturalezza con cui Garrone inserisce nel flusso delle immagini sequenze fatate, sognanti, circondano “Io Capitano” di un’aura fiabesca, e lo trasformano in un poema epico per ragazzi che dunque considera come già “storia” quanto vi accade e vi viene mostrato, trasfigurato qui, e finalmente, in una rappresentazione che è essa stessa l’incontro delle culture coinvolte, la “nostra” e la “loro”, felicemente espressa in una universalità di tratto riconoscibile che dovrebbe fare invidia ai tanti registi fighetti, specie se italiani, che prima negli attici e nelle terrazze bene, poi sugli schermi dei Festival antepongono sempre il proprio spazzolino da denti a tutto quello che ci sarebbe da raccontare nel mondo…

– Ma quindi l’argento non ti basta?

– No, non mi basta. Tanto più che a Venezia i Leoni d’argento sono due, uno per la regia, che è questo vinto da Garrone (e che per l’invenzione visiva e la cura nella confezione formale di “Poor Things” sarebbe potuto tranquillamente andare a Lanthimos), e l’altro è il “Gran Premio Speciale della Giuria”: quale dei due sarà il più importante? Chi, insomma, è arrivato secondo e chi terzo? Misteri lagunari…

– E la Holland che cosa ha vinto, allora?

– Lei ha preso, con il suo “Green Border”, il “Premio speciale della Giuria”, che più quarto posto di così, si muore.

– Lo hai visto?

– No. Nella mia vita ho visto almeno quattro film di Agneszka Holland, tutti mediamente mediocri. Dovendo scegliere tra il riposo e un’alzataccia per infilarci anche questo, ho preferito dormire. Alla proiezione tutti piangevano, mi hanno detto. Io conservo il beneficio del dubbio. Poi sai, Venezia è anche Harry’s Bar, La Fenice, Mostre, Musei, Chiese zeppe di meraviglie… Perciò ho rinunciato anche al “Gran” Premio Speciale, che si è beccato Hamaguchi Ryusuke.

– Come mai lo hai saltato a bella posta?

– Perché avevo trovato insopportabile il magnificatissimo “Drive my car”, naturalmente Oscar come film straniero. È la maledizione di noi nati controcorrente: non lo facciamo apposta; ci disegnano così…

 

Sofia Coppola, Priscilla
Sofia Coppola, Priscilla

– Qualche altro premio con cui ti sei trovato d’accordo?

– Mi ha parecchio intenerito la Coppa Volpi femminile a Cailee Spaeny, la “Priscilla” di Sofia Coppola: così ragazzina eppure già in grado di centellinare la propria femminilità per raggiungere qualsiasi obbiettivo restando integra. Ho apprezzato anche quella maschile a Peter Sarsgaard per “Memory” di Michel Franco, che tuttavia confesso di aver intravisto in stato di semi-incoscienza per colpa della stanchezza degli ultimi giorni. Ma vorrò recuperarlo, perché sono convinto che sia un buon film. Ottimo il premio alla sceneggiatura di “El Conde”, il film vampiresco di Pablo Larraìn: in un post su facebook pubblicato all’uscita del film l’avevo accostata, per qualità letteraria, a un libro Adelphi: ci avevo piuttosto preso, direi. …Ma il premio più giusto e sacrosanto, quello che ha lasciato a tutti i presenti, dentro la Sala o chi seguiva la premiazione in diretta, il graffio più vistoso di tutta questa Mostra del Cinema numero 80 è il Mastroianni a Seydou Sarr, il ragazzo protagonista di “Io Capitano”. È stato quello, spogliando i “film” del loro status fatto di storie, durate, montaggi e prese dirette, il momento cinematografico senz’altro più commovente che si sia visto al Lido. Quasi corollario dello stesso “Io Capitano”, sospeso con il suo finale in mare aperto, qui idealmente conclusosi con l’emozione dell’eroe olimpico insignito sul podio del vincitore.

– Finisce così, questa favola breve se ne va?

– Avrei un paio di cose da aggiungere, una buona e una molto meno: sono sempre consigli che i lettori-spettatori valuteranno se accogliere o respingere. Due film. Iniziamo dal meno riuscito: “Lubo”, sesto ed ultimo film italiano in concorso, di quel Giorgio Diritti che da “Il vento fa il suo giro” ha infilato una sporadica serie di titoli a mio avviso immeritatamente celebrati. Ma è un mio personale problema con il suo cinema: mi sfugge. Queste tre ore di “Lubo”, che si avvalgono della partecipazione di un attore attualmente molto di moda, il tedesco Franz Rogowski, sono tetre e sonnolente come uno sceneggiato della Tv Svizzera degli anni ’90, e annacquano la forza del dramma degli “jenisch”, una popolazione nomade detta “zingari bianchi”, vittime di una legge folle che negli anni ’30 prevedeva lo strappo dei figli ai genitori in nome del divieto a tutta la popolazione minorenne di vivere in strada. Chiudo invece in bellezza raccomandando a gran voce un film che ci ha incantati quasi tutti (“quasi”, perché c’è sempre qualche uccellaccio cinico che gufa) al Lido. È il film di un regista francese magnifico, conosciuto e amato per il vigore cinematografico con cui mette in scena drammi politici o vicende familiari tormentate, quello Stéphane Brizé esploso a Cannes con “La legge del Mercato” nel 2015 e scoperto (parlo per me) l’anno dopo a Venezia con il miracoloso adattamento per il grande schermo di “Una vita” di Guy de Maupassant (sembrava di vedere i filmini di famiglia girati nell’800 con una telecamerina portatile…). Quest’anno ci ha nuovamente tutti (“quasi tutti”, vabbè) sorpresi con “Hors-Saison” (“Fuori stagione”: può esistere un titolo più bello?) una, ebbene sì, “commedia sentimentale” minimalista, ironica, lieve, ma pronta a spaccarsi come una caramellina tra i denti per distribuire al palato il gusto amarognolo e stordente del disincanto. Forse il film che, insieme a “Finalmente l’alba” di Saverio Costanzo, “Priscilla” di Sofia Coppola, “Coup de chance” di Woody Allen, il Zion di Travis Scott in “Aggro Dr1ft” di Harmony Korine, e la scena del litigio tra Leonard Bernstein e sua moglie in “Maestro” di Bradley Cooper, conserverò tra i ricordi più intimi e duraturi di tutta questa Venezia 80.

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