65 scatti compongono la mostra JIMMY NELSON. Humanity, che racconta i viaggi del fotografo nei luoghi più remoti del pianeta, abitati da popolazioni antiche ma in parte contaminate dalla contemporaneità. Curata da Nicolas Ballario e Federica Crivellaro, l’esposizione è a Palazzo Reale di Milano dal 20 settembre 2023 al 21 gennaio 2024.
Nel 2010 un gruppo di Dani della Papua Occidentale marciano trionfanti adornati da oggetti tradizionali: arco, frecce, collane d’ossa, strumenti musicali in legno, degli occhiali da sole. Si, degli occhiali da sole. Nel 2011 tre abitanti del Lo Mangthang Village, in Nepal, sono avvolti nella polvere libratasi in aria nel corso di una manisfetazione a cui stanno partecipando, indossano lunghe tuniche marroni, in testa hanno un copricapo dall’ampio pennacchio rosso, tra le mani i piatti che stanno suonando. Quello al centro porta un paio di occhiali da vista all’avanguardia. Nel 2018 dalle parti di Anabar, in Siberia, un gruppo di dolgani trainano delle slitte cercando di districarsi tra la neve con l’aiuto delle renne. Dietro di loro alcuni compagni di viaggio si muovono agilmente, stando in piedi, sulle loro motoslitte.
Quelle citate sono situazioni plausibili, anche comprensibili, ma non sono di certo le prime che vengono in mente quando ci figuriamo le antiche popolazioni indigene dell’Africa, dell’Asia o della Nuova Zelanda. Più spesso ci accontentiamo di una loro immagine museale, consolatoria, cristallizzata in un’epoca lontana e irraggiungibile. Insomma, stereotipata. E se è vero che ancora oggi questi individui sono lontani, di certo non sono raggiungibili. Li ha raggiunti la globalizzazione, che ha portato loro strumenti di cui forse nemmeno avevano così bisogno; li ha raggiunti anche Jimmy Nelson, per fotografarli e riportare a noi un messaggio chiaro: queste persone sono vive, si evolvono, si adattano e, anche se in modo diverso al nostro, anche loro stanno vivendo la loro contemporaneità.
Oggi 65 di queste fotografie – risultato di una lunga carriera spesa in lunghi viaggi negli angoli più remoti del pianeta, dalla Papua Occidentale al Tibet, dall’Africa alla Siberia, dal Bhutan ad altre esotiche mete – sono in mostra a Milano e raccontano di alcune delle culture indigene più a rischio di scomparsa. Lo fanno in modo impostato, teatrale, tutto tranne che spontaneo. Le figure sono in posa, agghindate dal capo ai piedi, disposte in modo ragionato, tutto attorno è allestita la messa in scena ideale. Non vi si trova colto nessun “attimo”, nessun fugace rapimento di un istante di genuinità. Eppure, anche se false, queste rappresentazioni sono più vere di molte altre. E la ragione, seppure nascosta in ombra, è del tutto ragionevole.
Quando un occidentale ruba uno scatto in uno di questi contesti, incontra spesso il rischio di ricercare ciò che già sa, ovvero quell’idea quadrata di civiltà indigene fatta di contatto con la natura e rituali tribali. Non che nelle immagini di Nelson non risulti tutto ciò, ma ci arriva in modo diverso. A monte, l’approccio di Nelson è differente. Il fotografo americano sceglie infatti di passare molto tempo con queste popolazioni, interagisce con loro, le conosce, si fa conoscere, conquista la loro fiducia. E solo dopo chiede loro di posare per lui, come vogliono, mostrandosi per quello che loro sentono di essere e non per come lui vorrebbe vederli. Controllando il lavoro, intervenendo su di esso. Il risultato è arte, ma anche antropologia e psicologia.
“Credo fermamente nel potere trasformativo della bellezza“, sostiene Jimmy Nelson. “Ho testimoniato di persona come riconoscere e celebrare la bellezza possa portare a cambiamenti positivi negli individui e nelle comunità. Quando le persone sono incoraggiate ad abbracciare le proprie identità e valori unici, diventano più sicure e appagate e si genera un effetto a catena di trasformazione positiva nelle loro vite”.
Centrale dunque la figura umana, che Nelson riprende in singoli e impattanti ritratti, oppure in scene corali – difficili da ottenere dal momento che richiedono il coordinamento di una moltitudine di persone, molte delle quali poco avvezze alla macchina fotografica, che devono rimanere immobili per alcuni secondi – dove il gruppo di persone appare spesso compatto e integrato nella natura circostante, quasi a diventare un tutt’uno. Importante, appunto, anche la natura e il suo aspetto incontaminato. Valli, montagne, pianure, deserti e corsi d’acqua colti nella loro maestosa bellezza. Ed è proprio la combinazione estetica tra natura e soggetto umano a rendere ancora più sincere le sue fotografie, che sono dichiaratamente volte al bello – “Dal punto di vista artistico – afferma Nelson – rimango affascinato dall’estetica delle popolazioni indigene. I loro indumenti vivaci, l’artigianato sofisticato e i paesaggi mozzafiato mi offrono un ricco arazzo visivo per catturare bellezza attraverso il mio obiettivo” – e solo in secondo piano puntano sul rilievo etnografico.
Eppure, ancora una volta, quel che potrebbe sembrare un limite diventa invece un punto di forza. La bellezza – con i suoi canoni razionali e le sue svolte irrazionali, con le sue proporzioni e le relative eccezioni, le sue regole e la loro totale rottura – diventa un concetto unificante dell’umanità, che riconosce e apprezza ciò che è bello anche nelle diversità. Vi è qualcosa di trasversale, che incrocia colore, forme e sentimenti e ci unisce, come una lancia scagliata a mezz’aria che raccoglie tutte le nostre anime e le riconduce al centro di un’idea platonica di ciò che piace. Qui ognuno di noi può riscoprirsi attratto da ciò che attrae chi gli sta accanto, scopre un desiderio, un fine comune, un obiettivo collettivo che azzera le distanze e attiva connessioni. É la bellezza ad unirci.