In questo momento storico la tematica del corpo è fonte di indagine, non solo artistica, a livello internazionale, sta infatti avvenendo una vera e propria celebrazione della libera espressione dell’intimo universo femminile oltre i vincoli che vorrebbero ingabbiarlo in ideali ormai obsoleti.
L’italiana Giulia Agostini inizia già adolescente approcciando il disegno e la pittura facendo ritratti di nudo dal vivo di modelle, poi, con la sua prima macchina fotografica, da totale autodidatta, ha iniziato a ritrarre sé stessa guardandosi e scoprendosi allo specchio, passando poi a ritrarre altre donne mantenendo sempre quella freschezza e quella immediatezza negli scatti, mai forzati, che creano un corpus eterogeneo di immagini in cui regna un’atmosfera penetrante, evocativa, fatta di istinto, che si sviluppa in un susseguirsi di situazioni e impressioni che rendono unico il corpus di opere di questa fotografa.
Ne ha fatta di strada Giulia Agostini da quando i suoi scatti furono notati dal Professor Bruce Checefsky del Cleveland Institute of Art, che la invitò ad esporre i propri lavori a New York, da allora l’artista è passata a fotografare in analogico, sia in bianco e nero che a colori, mischiando ai suoi autoritratti, i ritratti di altre donne, riprendendo i soggetti in relazione allo spazio che occupano, ponendosi tra la tradizione della stage photography e della landscape photography.
Il corpo femminile è dunque protagonista, esso viene indagato senza falsi pudori, in tutte le sue accezioni, mostrandone la poesia, la vulnerabilità e la forza, mentre le ambientazioni degli scatti, domestiche o immerse nella natura, acquisiscono un valore simbolico, concorrendo a dare una sfumatura magica e onirica alla composizione delle opere.
Il tuo inizio con la pittura e il disegno ha influenzato la tua pratica successiva nella fotografia?
Quando ho iniziato a fotografare mi sono sentita libera perché si trattava di osservare quello che trovavo attorno a me e capire cosa più mi interessava. Non c’era bisogno di uno studio, non c’era bisogno di cavalletti, pennelli o acqua ragia ma solo di uscire, camminare e fare foto. Il bello della fotografia è che ti basta una macchinetta fotografica qualunque e puoi subito iniziare.
All’inizio ti sei dedicata a degli autoritratti concentrandoti sul tuo corpo. Cosa ti ha spinta a fare questa esplorazione?
Il desiderio, l’avermi spesso a portata di mano e l’ossessione per gli specchi.
Il percorso col medium fotografico, come si è evoluto fino ad oggi?
Sono partita con quello che ho trovato. Capita che in alcuni momenti ti concentri sulla mancanza. La mancanza di tempo, di quella macchina fotografica, di un’idea chiara. Quando decidi e fai, tutto questo scompare perché sei lì in quel momento ed hai smesso di pensarci troppo.
Ricordo un’intervista di Moriyama dove diceva: “Take photographs—of anything and everything, whatever catches your eye. Don’t pause to think. That’s the advice I give people. Snapshot photography is all about capturing the natural movement and expression of whatever you are photographing—the subject—in that particular moment”. Entri in un rapporto di intimità e confidenza con le ragazze che fotografi?
Quando succede è quasi magia.
Cosa significa per te la rappresentazione del corpo nudo?
Non credo sia qualcosa di ribelle o necessariamente provocatorio anche se a volte lo diventa. Una buona parte la fa il contesto in cui va condivisa, ancora di più gli occhi di chi la osserva.
Le tue immagini hanno anche una carica sensuale, sono intime ma aperte al mondo… Attraverso l’obiettivo si può ridefinire e riappropriarsi della visione del proprio corpo e si può dare spazio a corpi ed identità che non ne avuta meno.
“ll female gaze è una riaffermazione della propria identità, di un’idea di bellezza diversa, meno artificiale, di una femminilità più complessa e sfaccettata e del diritto all’autorappresentazione del proprio corpo: insomma, una radicale ridefinizione del concetto stesso di desiderio.” Laura Muvley