Intervista a Francesco Zanot, curatore della sesta edizione della Biennale Foto/industria in corso a Bologna alla Fondazione MAST e in altri spazi
Fino al 26 novembre Bologna ospita la sesta edizione della Biennale Foto/industria con undici mostre personali e una mostra collettiva, ospitate alla Fondazione MAST e in una decina di altri spazi nel centro storico della città. Il tema è il gioco. Ne abbiamo parlato con il curatore Francesco Zanot.
Questa è la sesta edizione di Foto/industria e hai scelto come tema conduttore il gioco. Perché proprio questo argomento? Quali sono le sue relazioni con gli aspetti del lavoro?
La passata edizione di Foto/industria, avvenuta a fine 2021, era centrata sul tema dell’industria del cibo. Successivamente abbiamo individuato il tema del gioco e dell’industria del gioco, sia per il suo carattere liberatorio, dopo le difficoltà che abbiamo tutti affrontato, ma anche per il suo valore universale, tanto più importante nel momento storico che stiamo vivendo. Il gioco, inoltre, costituisce un comparto industriale di grande importanza e grande tradizione, e in questa biennale lo investighiamo a partire dal suo legame con le attività produttive, essendo anche oggetto, hardware e dispositivo. È il precipitato di un lavoro intellettuale, manuale e meccanizzato al centro di un vera e propria economia, capace di sorreggere intere comunità in ogni angolo del mondo. Per non parlare dello straordinario successo commerciale dei videogame, il cui valore è stimato circa il doppio dell’industria del cinema.
In che modo avete immaginato le mostre?
Possiamo sinteticamente suddividere le mostre della Biennale in quattro gruppi. Nel primo il gioco è inteso come dispositivo tecnologico, come macchina. Nel secondo è inteso come dispositivo spaziale. Nel terzo come dispositivo sociale, mentre nell’ultimo come dispositivo per l’invenzione di realtà. Vengono così toccati ambiti molti diversi tra loro, tra cui il rapporto tra gioco e psicologia, sociologia, ecologia, storia, filosofia, politica e molto altro ancora.
Nella tua presentazione hai fatto riferimento a Huizinga di Homo ludens. Quali aspetti culturali, relazionali o psicologici hai preso in considerazione per il progetto?
Ci sono in particolare un paio di mostre che esplorano il rapporto tra gioco, psicologia e cultura. Il progetto di Hicham Benohoud La Salle de classe, in cui l’artista marocchino ha preso come soggetto i ragazzi a cui faceva lezione quando era insegnante a Marrakech tra il 1994 e il 2000. Il suo interesse si rivolge sia al rapporto tra gli studenti, che a quello tra loro e l’autorità, rappresentata dal maestro stesso e dalla scuola. Qui il gioco emerge come strumento di auto-rappresentazione e come dispositivo attraverso cui stabilire un legame con l’altro, cosa che può comprendere dinamiche di condivisione e scambio, ma anche di lotta, prevaricazione o sottomissione. Il gioco, infatti, riverbera e anticipa la complessità dei rapporti sociali. Ma c’è poi un’altra mostra, Playgrounds di Linda Fregni Nagler, che approfondisce il rapporto tra gioco, psicologia e cultura. Il soggetto sono una serie di campi da gioco, che Linda ha fotografato in diversi paesi dal 2006. I campi appaiono come luoghi per sfuggire alla città pur rimanendone dentro. Nel contesto urbano, infatti, il gioco non ha bisogno soltanto di uno spazio separato, ma anche di uno spazio di sicurezza. Linda, però, ha fotografato i campi di notte, trasformandoli da luoghi rassicuranti a spazi inquietanti vuoti, scuri e senza colore. Quando pensiamo al gioco lo colleghiamo immediatamente al divertimento. Ma è molto di più. È una cosa seria.
La biennale è costituita però da una dozzina di mostre. Come la personale di Andreas Gursky al Mast e poi in svariate altre sedi nel centro storico di Bologna, tra cui il MAMbo che ospita Cécile B. Evans e il Museo Archeologico che ospita Olivo Barbieri e Daniel Faus. Ma c’è poi anche una riscoperta storica come Heinrich Zille, già ammirato da Jeff Wall. Come hai scelto gli autori da invitare?
Non è stato semplice. Sono moltissimi gli autori che hanno investigato questo tema. Siamo partiti da una selezione molto ampia che poi abbiamo progressivamente ridotto. Ogni mostra di Foto/industria funziona come un caso-studio, ovvero come un’occasione di approfondimento del lavoro di un artista e di una specifica declinazione del tema, cercando di evitare sovrapposizioni. Ovviamente abbiamo cercato di selezionare progetti di autori che appartengono a culture diverse, dagli Stati Uniti al Marocco, dal Libano alla Germania, consentendoci di allargare lo sguardo su un argomento universale, ma allo stesso tempo da chiare tipicità locali. Anche il tempo è stato un criterio. Ci siamo particolarmente concentrati sugli ultimi vent’anni, ma siamo anche andati indietro di oltre un secolo con la mostra di Zille, cercando così di osservare contemporaneamente l’evoluzione del gioco, il nostro rapporto con questo tema, e il linguaggio stesso della fotografia e dell’arte. Ci sono poi alcuni autori che non sarebbero potuti mancare, come ad esempio Ericka Beckman, che ha dedicato la sua intera carriera a indagare in profondità la struttura del gioco attraverso straordinarie opere fotografiche e video. Oppure a Erik Kessels, che spesso ha inteso la fotografia stessa come un gioco, e si è concentrato sugli usi e le funzioni sociali della fotografia amatoriale, e sul suo aspetto rituale.
I lavori esposti spaziano dal classico reportage fotografico a opere basate invece sulle tecnologie digitali impiegate dei videogiochi. Come stanno insieme tipologie così differenti di immagine?
Credo che questa ‘differenza’ sia una delle caratteristiche della fotografia di oggi. Abbiamo cercato di assecondarla. Attualmente è molto difficile distinguere tra diversi generi e diverse pratiche fotografiche. Il linguaggio della fotografia è sempre più complesso, magmatico, composito. Molti autori contemporanei mescolano all’interno del proprio lavoro codici e caratteri provenienti da generi differenti, spesso addirittura da usi diversi della fotografia. La natura molteplice della biennale rispecchia questa caratteristica della fotografia contemporanea, e in particolare del sistema della fotografia nel mondo dell’arte, che tende a includere anziché a scartare, a combinare e a ibridare, evidenziando tra le altre cose la complessità di questo mezzo.
Alcuni degli autori provengono però dal mondo della fotografia ‘ortodossa’, mentre altri più dal campo delle arti visive. Hai colto delle differenze nel loro approccio?
Non ne ho trovate. Anche perché abbiamo in tutti i casi selezionato autori che producono il proprio lavoro all’interno del sistema e del dibattito dell’arte. Alcuni tra loro sono fotografi, nel senso che utilizzano esclusivamente la fotografia come linguaggio espressivo. Altri invece fotografano nell’ambito di una produzione più ampia dal punto di vista tecnico e disciplinare, come ad esempio a Raed Yassin, che è anche musicista e attore. O Cécile Evans, i cui lavori spaziano dal film alla scultura. O ancora Danielle Udogaranya, che combina design, gaming e attivismo. Penso che una delle caratteristiche di questa edizione di Foto/industria sia proprio la multidisciplinarietà, nel senso che la gran parte degli artisti invitati si muove tra fotografia e altri media. Anche l’autore più storico tra quelli esposti, Heinrich Zille, che lavorava tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, in fin dei conti non è noto per il suo lavoro da fotografo, ma come caricaturista e illustratore.
Game. L’industria del gioco in fotografia
A cura di Francesco Zanot
Bologna, sedi varie
18 ottobre – 26 novembre 2023
www.fotoindustria.it
Fondazione MAST
Bologna, via Speranza 42
www.mast.org