Fino al prossimo 7 gennaio i Musei di Villa Torlonia, Casino dei Principi, a Roma, ospitano la mostra “Crucible” dell’artista statunitense Ferrari Sheppard (Chicago 1983).
Considerato uno dei pittori più interessanti delle ultime generazioni, rappresentato in Italia dalla galleria MASSIMODECARLO, per l’occasione Ferrari presenta diciotto pitture, undici delle quali realizzate appositamente per la mostra romana. Con un passato di musicista e un percorso non facile per arrivare alle arti visive, l’artista si racconta in questa intervista.
Perché e come è passato dalla musica all’arte nel 2019?
Le persone pensano che io sia passato dalla musica all’arte quando, in realtà, sono sempre stato un artista. Ho frequentato la School of the Art Institute di Chicago e, terminato il mio percorso di studi, ho tentato di intraprendere una carriera artistica, ma sfortunatamente senza molto successo. Mancavano alcuni elementi determinanti, soprattutto le connessioni col mondo dell’arte e una precisa voce. A vent’anni ho deciso di divertirmi un po’ e di esplorare vari progetti. Quella che la gente percepisce come la mia carriera musicale è in realtà solo un album, un progetto a cui ho lavorato. Mi sono sempre identificato prima di tutto come un pittore, a cui è capitato di pubblicare anche un progetto musicale. È simile a quello che Warhol fece con i Velvet Underground. Quindi, non è stata una progressione lineare: prima sono stato un musicista e poi sono diventato un pittore. Intorno al 2014 ho deciso di dedicarmi alla pittura a tempo pieno. Durante questo periodo, il mio obiettivo principale è stato quello di esplorare l’astrazione e di impegnarmi nell’eliminare la presenza di figure nel mio lavoro. È diventato per me una sorta di rituale di purificazione, che mi ha permesso di raggiungere un punto in cui la mia pratica è ora uniformemente bilanciata tra figurazione e astrazione. Il mio ingresso nel mondo dell’arte ha incontrato resistenze e ostacoli. Ho dovuto dimostrare costantemente il mio impegno e la mia dedizione per essere preso sul serio. Ero consapevole delle sfide che avrei dovuto affrontare, soprattutto considerando il successo di musicisti come Miles Davis, che era anche un artista visivo di talento ma che ha faticato a farsi riconoscere in quel campo. È curioso che il mio successo come artista visivo sia stato influenzato dalla mia ridotta esperienza come musicista. Se fossi stato più abile nella musica, il passaggio alle arti visive sarebbe stato ancora più difficile, forse addirittura impossibile.
Qual è stata la sfida più grande in questa transizione?
La sfida più grande per me non è stata con il mondo esterno, ma con me stesso. È stato difficile trovare il mio linguaggio visivo in mezzo a cinquecento anni di storia dell’arte. Questo compito era incredibilmente scoraggiante, soprattutto perché avevo studiato alla School of the Art Institute di Chicago, circondato da capolavori ogni giorno. Questo ambiente poteva scoraggiare o ispirare, e per me ha fatto entrambe le cose in momenti diversi. Quando finalmente mi sono dedicato alla mia arte a tempo pieno, la domanda più pressante era: “Che aspetto ha un dipinto di Ferrari Sheppard?”. Ho subito l’influenza di artisti come Michelangelo e Caravaggio, che rappresentavano uno spirito di ribellione. Michelangelo sfidò le proporzioni e la composizione classica romana attraverso il manierismo, mentre Caravaggio, condannato per un omicidio e latitante, fu il pioniere della tecnica del chiaroscuro. Entrambi gli artisti erano ribelli e si spingevano oltre i confini della creatività. Alla fine ho trovato la mia strada verso l’astrazione, che è diventata la base della mia espressione artistica.
Quali sono le sue fonti d’ispirazione?
Per quanto riguarda la mia arte, credo di essere il risultato di tutto ciò che ho vissuto. Ho trascorso diversi anni in diversi paesi africani, tra cui Tanzania e Sudafrica. Le persone mi chiedono spesso come questo abbia influenzato il mio lavoro, e la mia risposta è sempre: “Non lo so ancora”. E non credo che gli artisti debbano necessariamente saperlo. Se si chiedesse a qualcuno come Michael Jackson o a un’altra pop star, se sapevano che stavano creando un successo quando facevano musica, probabilmente risponderebbero che stavano solo esprimendo se stessi e che il risultato è stato quello che è stato. Quindi, è difficile per me individuare delle influenze specifiche. Tuttavia, per quanto riguarda gli artisti che mi hanno suggestionato nel corso degli anni, i pittori rinascimentali come Michelangelo e Caravaggio sono tra i primi ad avermi ispirato. Poi mi sono avvicinato ad artisti come Cy Twombly, Jacob Lawrence e Joan Mitchell. Amo Joan Mitchell e il suo approccio perché nel suo lavoro c’era un senso di libertà. Non li chiamerei “errori felici” perché questo semplifica quello che ha fatto. Non si può sbagliare così tante volte ed essere comunque grandiosi. Ma sembrava quasi un caso, ed è questo che ho preso da lei. Ho preso spunti ed elementi diversi da vari artisti. Per esempio, ammiro molto Jack Whitten e la sua filosofia di fondere la scienza e la psicologia con l’arte, perché credo che non possano essere scisse.
Come sceglie i suoi soggetti?
Per me ogni mostra è come un album o un romanzo, un corpus di opere unico. Non deve necessariamente avere una narrazione, ma è sempre presente una narrativa implicita. Spesso do alle mie opere titoli poetici, alcuni dei quali provengono da canzoni jazz, mentre altri li invento io. Cerco anche di immaginare quale sarebbe la rappresentazione sonora di ogni dipinto e quale sarebbe il suo nome. Mi avvicino a ogni mostra come a un pensiero coeso, senza mai volerla far sentire frammentata. Il soggetto del mio lavoro dipende da ciò che accade nella mia vita. A volte è autobiografico, ma la maggior parte delle volte guardo il mondo dall’esterno. Spero che, con l’avanzare della mia carriera, potrò iniziare a rendere il mio lavoro più autobiografico. Ma per ora la mia vita personale e la mia infanzia sono molto sacre per me. Possono essere tremendamente gioiose ma anche dolorose. Quando si tratta del mio lavoro, so che il dolore è intrinseco, perché la vita non può esserne priva. Tuttavia, la mia forza come artista non risiede necessariamente nella rappresentazione del dolore. Se dovessimo collocare il mio lavoro su una linea temporale o in un momento specifico, sarebbe dopo il trionfo, dopo aver superato il dolore. Il dolore è già implicito, ma quello che si vive è il momento della risoluzione. È simile a come Michelangelo ha rappresentato il David nella sua scultura. Altri artisti avevano raffigurato David come un ragazzo trionfante in piedi sopra Golia, ma Michelangelo scelse di ritrarre il momento di tensione e paura subito prima di sconfiggere il gigante. Come artista, è importante sapere quali sono i propri punti di forza. La mia forza sta nel catturare i momenti che seguono o la loro risoluzione.
Secondo lei, qual è il confine tra astrazione e figurazione nei suoi dipinti?
Non vedo l’astrazione e la figurazione come opposti, ma piuttosto come componenti che operano in un insieme nella mia mente. Se potessi catturare l’emozione che una figura può trasmettere senza raffigurare realmente la figura, la eliminerei completamente. Intendo esplorare il modo in cui dare forma astratta all’intelligenza emotiva di un essere umano. Questo è il modo in cui percepisco il rapporto tra astrazione e figurazione. Credo che al mondo ci siano molte cose più interessanti della forma umana. Non si tratta solo dell’aspetto fisico di una persona, come la rappresentazione realistica di due occhi, un naso e due orecchie. L’aspetto affascinante della vita, secondo me, è la natura fantasiosa e mutevole delle cose. Da bambino mi chiedevo come sarebbe stato se un orecchio fosse stato al centro della fronte o come le proporzioni potessero mutare. Ecco dove sta il divertimento per me. Il disegno e l’anatomia umana sono già stati appresi e perfezionati, ma l’astrazione è un processo continuo. Nessuno è riuscito a padroneggiare veramente l’astrazione, ed è questo che mi attira. Non c’è un obiettivo finale o una conclusione definitiva con l’astrazione, a differenza della forma umana. È un’esplorazione continua, ed è questo che trovo avvincente.
Come è nata l’idea della sua mostra a Roma?
L’idea della mostra Crucible è nata quando mi è stato chiesto se volevo esporre in un museo di Roma. Ero colpito quando ho saputo della storia del luogo e del suo legame con Mussolini. Come appassionato di storia, anche se a volte può essere pesante e deprimente, lo trovo estremamente interessante. Inizialmente mi sono chiesto quale fosse il mio legame con Roma e Mussolini. Così ho iniziato a fare ricerche e mi sono imbattuto in un articolo sul sito web dell’esercito degli Stati Uniti che parlava di come la musica jazz fosse usata come grido d’allarme per le truppe americane durante la Seconda Guerra Mondiale. L’articolo sottolineava l’importanza del jazz nella lotta contro il fascismo. Ho trovato ironico che gli afroamericani, che stavano ancora lottando per i propri diritti civili e per il riconoscimento come esseri umani, fossero l’ispirazione per il disfacimento del fascismo, che è l’ultima violazione dei diritti umani. Questa constatazione mi ha portato ad approfondire la liberazione di Roma e a scoprire che il jazz ha avuto un’influenza significativa non solo sulle truppe americane, ma anche in tutta Italia. Mi ha affascinato l’improbabile unione di queste due culture, separate dall’Atlantico e dalla lingua, che hanno trovato un terreno comune attraverso l’arte. Il jazz è diventato la base della mia mostra e sembra permeare la mia pratica artistica in generale. C’è qualcosa che ricorda il jazz nel mio lavoro, in particolare nell’aspetto estemporaneo della mia linea e nel modo in cui mi avvicino alla tela. Ascolto spesso musica jazz mentre creo, e per questa mostra ho incorporato anche musica soul, Parliament Funkadelic e James Brown, che hanno dato vita a soggetti interessanti. Un’opera della mostra, intitolata Let Freedom Ring, raffigura un momento in cui una bambina e sua madre guardano la vetrina di un grande magazzino, osservando una figura su un televisore che potrebbe essere Martin Luther King. Volevo evocare un senso di nostalgia perché la gente era solita riunirsi fuori dai grandi magazzini per guardare la TV, cosa da cui ci siamo allontanati. Catturare questo momento significativo per gli afroamericani e per la mia comunità, mettendolo in relazione con la liberazione di Roma, consente agli spettatori di fare loro i paralleli. Un’altra opera in mostra si intitola Race, che ha un doppio significato. Il significato principale si riferisce a Jesse Owens, che vinse quattro medaglie d’oro nella Germania nazista. Mi sono sempre chiesto quali sfide abbia dovuto affrontare in quanto uomo di colore, affrontando il razzismo e i pregiudizi non solo in America ma anche nella Germania nazista. Ho scoperto che Adolf Hitler ebbe un incontro con uno studioso di colore e, sebbene con condiscendenza, chiese informazioni sull’intelligenza dei neri d’America. Quest’epoca mi incuriosisce particolarmente perché ha plasmato il mondo in cui viviamo oggi. Gli afroamericani hanno combattuto in tutte le guerre degli Stati Uniti. Sebbene il mio lavoro non sia apertamente politico, presenta comunque un aspetto politico, sia esso silenzioso o implicito. Credo che l’arte debba essere un catalizzatore di nuovi pensieri e cambiamenti. Ho anche potuto constatare come l’arte possa unire le nazioni, e questo era il mio obiettivo con Crucible.
Perché ha scelto il titolo Crucible per la sua mostra e cosa significa questa parola?
Ho scelto il titolo Crucible per la mostra perché mi piace usare parole potenti che possono trasmettere molti significati con una sola parola. Alcune delle mie mostre passate avevano come titoli Positions of Power, Dark Bodies—Bright Crest. Per questa mostra in particolare, Crucible è nato perché ho sviluppato un’ossessione per l’oro e il processo di raffinazione. L’oro non è presente solo nelle mie opere d’arte, ma anche nella mia vita di tutti i giorni, passo molto tempo a guardare video online su come si raffina l’oro, perché spero di poterlo fare anch’io un giorno. La cosa interessante è che quando si raffina o si fonde l’oro, lo si fa in un recipiente chiamato crogiolo. L’idea di unire queste due culture diverse mi ha fatto pensare al processo di mettere i metalli di base in un crogiolo, riscaldarli fino a raggiungere lo stato fuso e poi diventare un tutt’uno. Si riferisce anche al concetto che gli Stati Uniti sono un crogiolo, come mi è stato insegnato durante la mia infanzia, anche se il dibattito su questa idea è ancora in corso. Quindi, Crucible è un modo poetico per racchiudere tutte queste idee e riunirle in un’unica parola.
Ho trovato molto interessante il collegamento che ha indicato con l’uso del jazz da parte dei soldati americani come forma di ribellione al fascismo durante la Seconda Guerra Mondiale. Come è nata questa ispirazione?
L’ispirazione per la mostra è venuta unicamente dalla sua sede, Villa Torlonia a Roma. Cerco sempre di capire dove mi colloco all’interno di un contesto. Alcuni potrebbero commentare le figure che dipingo dicendo: “Beh, sono figure nere. Wow, tutte le figure sono nere”. Questa è la mia prospettiva. Ho bisogno di vedere le cose attraverso la mia lente, e poi gli spettatori possono interpretarle come preferiscono. Ho notato che il mondo si appropria spesso delle culture indigene, soprattutto quando si tratta di cultura nera o afroamericana. È una fonte così ricca di vittorie e drammi, eppure viene spesso dimenticata. Se si considerano alcuni cantanti blues, i pionieri del jazz, spesso vengono trascurati. E anche se non sono stati dimenticati, non hanno mai ricevuto un riconoscimento o un compenso per il loro lavoro. Per questo motivo, la mostra è un tributo a loro. Quando si parla della Seconda Guerra Mondiale e del catalizzatore o dello spirito che ha portato alla sconfitta del fascismo, non dobbiamo dimenticare coloro che sono stati i pionieri e hanno creato la musica e l’arte che hanno ispirato la resistenza. La mostra è il mio modo di rendere omaggio ai loro contributi e di dare loro il riconoscimento che meritano.
Che significato ha per lei fare una mostra a Roma, in particolare a Villa Torlonia?
La mia precedente mostra a Londra era intitolata Tremendous. Questo è un periodo interessante della mia carriera perché, sebbene io sia nato negli Stati Uniti, mi trovo in una sorta di tour mondiale in Europa e in Asia, cosa che non avrei mai immaginato di fare. È uno sviluppo emozionante e sono particolarmente entusiasta di essere a Roma. Sarà la mia prima volta in Italia e per me ha un significato speciale, poiché la genesi della mia pratica artistica è radicata nell’ispirazione che ho tratto dal Rinascimento, da Michelangelo, Caravaggio e altri. È una tappa simbolica e bellissima tornare nel luogo in cui è nata quella che considero l’arte. Sebbene l’arte esista in tutto il mondo, credo che la pittura abbia una forte base in Europa, soprattutto in Italia. Perciò sono incredibilmente emozionato all’idea di fare una mostra qui e sono curioso di vedere come i romani accoglieranno il mio lavoro. Spero che lo apprezzino.
Tutte le immagini: Foto di Ruben Diaz – Courtesy MASSIMODECARLO