240 artisti, 7 sezioni e 10 anni di itineranza attraverso il Brasile: “Dos Brasis. Arte e Pensamento Negro” è la più grande mostra dedicata all’arte visiva black mai realizzata. L’abbiamo visitata con uno dei curatori, Igor Simões.
La rete dei SESC (Serviço Social do Comércio) esiste in tutto il Brasile dal 1946: si tratta di strutture ricreative e alberghiere create da gruppi di imprenditori con l’obiettivo di offrire ai propri lavoratori e alle loro famiglie servizi e spazi di benessere e tempo libero. Il risultato, in quasi 80 anni di esistenza dei SESC, è stato sorprendente soprattutto in alcune aree – come ad esempio nelle città di São Paulo e Rio de Janeiro – dove queste strutture hanno marcato vere e proprie storie sociali e culturali, a colpi di teatro, danza, musica, arti visive, cinema, letteratura, laboratori, campi estivi, attività sportive, nonché servizi medici e odontoiatrici, tra le altre cose.
Alcuni SESC, inoltre, sono diventati vere e proprie cartoline urbane: il centro della Avenida Paulista, è uno dei belvederi più conosciuti della città; il SESC Pompeia, ex industria di frigoriferi, fu riscattato dalla sua antica funzione nel 1977 grazie a un immaginifico progetto di Lina Bo Bardi, che lo consegnò alla città nella sua sempreverde meraviglia nel 1982. Tra le altre splendide sedi SESC a São Paulo, ci sono i 13 piani dell’ex fabbrica Mesbla nel cuore di Sampa, rua 24 de maio, riadattati dal Leone d’Oro per l’Architettura Pablo Mendes da Rocha, che attualmente ospita la Biennale Videobrasil, e anche il SESC Belenzinho, nel quartiere omonimo, dove fino al prossimo 28 gennaio è in corso una mostra che si prevede storica, e che per i prossimi 10 anni attraverserà l’intero Paese appoggiandosi, chiaramente, ad altri spazi SESC: in alcuni l’esposizione andrà integrale, in altri ridotta, conforme alle dimensioni delle sedi, a partire dal secondo semestre del 2024.
Dos Brasis. Arte e Pensamento Negro
Quale mostra? Parliamo di “Dos Brasis. Arte e Pensamento Negro”, che riunisce le opere di 240 artisti afro-discendenti, abbracciando tutte le generazioni del ‘900 e includendo antichi maestri come Abdias Nascimento, Rubem Valentim, Emanoel Araújo e Mestre Didi, uniti a giovani talenti come No Martins, Panmela Castro, Paulo Nazareth, solo per citarne alcuni, insieme a protagonisti dell’arte contemporanea brasiliana come Dalton Paula, Rosana Paulino, Ayrson Heráclito, ponendosi così come la più inclusiva mostra dedicata all’arte visiva “nera” mai realizzata in Brasile.
E se il destino di “Dos Brasis” é in viaggio, è da un viaggio durato quasi due anni alla scoperta degli artisti di ogni aerea del Paese che la mostra è nata, anche se l’esordio dell’idea risale al 2018, quando la rete SESC immaginò una ricognizione della produzione artistica afro-brasileira partendo dai suoi archivi.
Hélio Menezes e Igor Simões sono stati i curatori invitati a realizzare la ricerca, nel 2019: tutto è cominciando con una “formazione” con i direttori dei SESC, ma il progetto ha finito per espandersi ben oltre le collezioni, e con l’uscita di Menezes (nominato nel team curatoriale della 35ma Biennale di São Paulo) a Simões si sono aggiunti Marcelo Campos e Lorraine Mendes, che oltre ad aver messo mano alle raccolte SESC sono entrati in studi, archivi, collezioni pubbliche e private, terreiros e quilombos in ogni angolo del Brasile, creando anche una residenza artistica online “Pemba: Residência Preta”, che ha raccolto oltre 450 iscrizioni e selezionato 150 artisti.
«Si è trattato anche di un momento per rafforzare una coscienza tra gli stessi artisti, perché questa mostra non si è costruita nel senso comune del termine, semplicemente guardando un portfolio e organizzando spazi, ma si è dovuti uscire dalle categorie – ci dice Igor Simões – C’erano alcune parole che ritornavano e che, in un certo modo, non facevano parte della nostra idea: “mappamento”, “inventario”, “catalogazione”, sono lemmi che in qualche modo determinano una visione coloniale. Abbiamo così creato delle strategie per evitare di avere una maggioranza di artisti dall’area del sud-est del Paese, per esempio, e per arginare la “dottrina” della storia ufficiale che vuole un’arte brasiliana bianca e formata grazie a studi europei. Abbiamo dovuto elaborare e superare le categorizzazioni arbitrarie di pittura naif, popolare, religiosa…», ci spiega il curatore.
La mostra è strutturata in 7 nuclei e rispettivi ambienti, porosi l’uno nell’altro, ognuno dei quali associato a un pensatore nero. Una mostra ciclopica, secondo le parole di Simões – che ci accompagna in una ricca visita guidata «Volutamente l’allestimento è al limite della saturazione. Anche per questionare il fatto storico: siamo nel 2023, il 56 per cento della popolazione brasiliana è afro-discendente e mai prima d’ora il “pensamento negro” ha avuto questo spazio: assurdo, no?».
Gli artisti
La mostra comincia con la sezione “Legítima defesa”, dove tra le altre opere c’è Escrevivente e Quaererent, Fernandah Tupi di Flaw Mendes (1981) una grande installazione nata da una performance realizzata durante l’apertura mantenendo il proprio corpo in una condizione innaturale, obbligato a scrivere con la mano sinistra, esplorando il concetto ibrido del linguaggio e le sue forme di comunicazione “guidata” dai poteri della storia ufficiale e, allo stesso tempo, medium per aprire nuove comprensioni e visioni.
Accanto al lettering pittorico di Flaw c’è lo splendido video 3 canali Bebedouro di Ulisses Arthur, che mette in scena una avventura-dramma-documentario di un gruppo di giovani (provenienti dal gruppo teatrale Associação da Criança e Adolescentes do Chã de Bebedouro) che si riappropriano delle macerie del quartiere del Bebedouro, appunto, nella città di Maceió (Alagoas) sprofondato a causa della selvaggia e non controllata estrazione della salgemma da parte dell’impresa Braskem. Un disastro che ha costretto all’esodo urbano 60mila abitanti. E i meno fortunati, che non hanno potuto lasciare la comunità, ancora oggi vivono senza aver ricevuto un indennizzo.
La varietà delle opere è tale che è davvero impossibile fare un inventario degli stili, delle tecniche, delle poetiche che si incontrano in “Dos Brasis”. Qui scegliamo – per dare un’idea – di immergerci in quella che è la “ritrattistica” della vida preta, e la percezione che gli artisti riportano di se stessi.
C’è, a esempio, l’incredibile autoritratto al cavalletto in studio di Wilson Tibério (1920-2005), che dimostra come, nonostante la chiusura e il preconcetto del mondo occidentale e coloniale nei confronti della negritudine, la propria condizione come artista sia totale e identica a quella di qualsiasi altro, anche bianco.
In questo nucleo è presente anche Miguel Afa (1980), con i suoi ritratti di persone di colore in situazioni precarie ma, allo stesso tempo, decorate di oro, a rimarcare simbologie e differenze.
«Non è una esposizione di “assenze”, perché il problema non è mai stato quello della “visibilità”. Prendiamo come esempio il pittore Estevão Silva (1844-1891) primo pittore di colore a studiare nell’Accademia Imperiale di Belle Arti a Rio de Janeiro, di cui scrissero grandi critici, poi dimenticato. Quello che è successo, nei confronti degli artisti black, è stata una totale visione selettiva, intenzionale, operata da chi doveva rappresentare l’arte brasiliana ufficiale», spiega Igor Simões.
Un altro problema che “Dos Brasis” solleva è, anche, quello dell’appropriazione del mercato di un ipotetico modello di “arte negra” che, in primo luogo, distrugge le possibili carriere di giovani artisti provenienti da condizioni molto svantaggiate che vengono spremuti per produrre pitture con una impronta pressoché politica che, in realtà, altro non è che il riflesso dell’ennesima onda economica che punta su una propaganda in apparenza dissidente.
Nel gruppo “Amefricanas” c’è la pittrice Lia D Castro (1978), a rivendicare la sua esistenza di donna nera, prostituta e artista: colore e seme dei suoi clienti sono alla base di dipinti dove la figura umana si lega alla geometria, ad azioni comuni e ad altre che riprendono propriamente la storia dell’arte, come i rari ritratti di donne che leggono. Lia D Castro indaga così questioni che hanno a che fare tanto con la gerarchia sociale quanto con i temi affettivi.
Walter Firmo (1937), referenza brasiliana e mondiale della fotografia che l’anno scorso al Centro Cultural do Banco do Brasil, a Rio de Janeiro, aveva avuto una splendida retrospettiva con oltre 260 immagini è a sua volta in “Dos Brasis” a rimarcare l’identità brasiliana: ufficiale, popolare, mista, colorata, problematica, poetica…
Nella sezione “Romper” un altro forte ritratto è quello che propone il giovane artista carioca JOTA (2001), che attraverso la sua pittura mostra la vita dei giovani afro-discendenti dentro la comunità, intenti in azioni quotidiane – come decolorare la barba, lavorando, cucinando, facendo volare aquiloni. In questo nucleo incontriamo anche Paulo Nazareth, che continua vendendo il suo ritratto di “uomo esotico”, come abbiamo visto in molte collezioni del mondo, dalla Pinault a Venezia alla Thyssen-Bornemisza di Vienna, fino alla Pinacoteca di São Paulo. Thiago Sant’Ana (1990) ci mostra ancora un ritratto in cui i cliché dell’uomo preto sono mischiati all’oro della dentatura, ai piedi scalzi, alle colonne “alla portoghese” del loggiato e anche il pavimento “a dama”, tipico di molte aree del Brasile, ha una interferenza con un azulejo arrivato, chiaramente, dall’emisfero nord di oltreoceano.
Infine, nella sezione “Negro-Vida”, Guto Oca (1981) si chiede Quando será a minha travessia: un’opera poetica che rimette tanto al tema del viaggio e dell’attraversamento, quanto alle possibilità negate a causa di una nuance della pelle o alle “travessie” obbligate delle rotte della schiavitù, anch’esse determinate per una “esteriorità”. Capelli, materiali incontrati e di recupero sono gli elementi che ci mostrano anche la macro-ricerca che coinvolge molte delle poetiche presentate.
«A chi mi chiede come immagino questa mostra da qui a dieci anni rispondo che vorrei che fosse assolutamente obsoleta, è la mia grande speranza», conclude Igor Simões, e la percezione corre immediatamente al simbolo Sankofa, elemento dell’antica cultura Adinkra, e ben più che tratto distintivo dell’architettura brasiliana di matrice africana, vero e proprio motto: “Torna indietro e prendi ciò che conta”. Chissà se si può ancora sperare di imparare dalle lezioni che la vita ci ha dato, per usarle saggiamente nel presente…e per i prossimi (almeno) 10 anni.