A Filmmaker 2023, festival cinematografico svoltosi a Milano dal 17 al 27 novembre scorso, Elvis Sabin Ngaïbino si è distinto vincendo il Concorso Internazionale con Le fardeau, suo secondo lungometraggio. Il regista (Bégoua, Repubblica Centrafricana, 1985) si era già messo in luce con il documentario Makongo – incentrato sulle enormi difficoltà di accesso all’educazione riscontrate dai giovani della popolazione pigmea Aka, nel Sud del Paese –, che fu premiato al Cinéma du Réel di Parigi e successivamente proiettato in concorso all’edizione 2020 di Filmmaker.
Ngaïbino fa parte di una sorta di vague del cinema Centrafricano, nata in un Paese dove fino a pochi anni fa una tradizione cinematografica vera e propria non esisteva. Fondatore nel 2012 insieme ad alcuni amici de L’académie du Cinéma Centrafricain, produce film per la televisione della Repubblica Centrafricana. In seguito studia regia agli Ateliers Varan, dove realizza il cortometraggio Docta Jefferson. In questo contesto conosce il regista romano Daniele Incalcaterra, con cui fonda Makongo Films, la prima casa di produzione cinematografica mai esistita nella Repubblica Centrafricana.
Le fardeau è la storia di Reine e Rodrigue, coppia che vive con tre figli a Bangui, capitale della Repubblica Centrafricana. Legatissima alla comunità religiosa cristiana, deve convivere da un lato con le difficoltà economiche dall’altro con il “fardello” materiale e morale che dà il titolo al film: entrambi sono sieropositivi in un Paese e, ancor più, in una comunità dove l’AIDS è ancora vissuto come uno stigma, se non come una sorta di punizione divina. La genesi di questo film lascia intendere quanto in alcune zone dell’Africa la sieropositività sia una condanna non solo da un punto di vista medico ma anche da quello dell’emarginazione sociale: intenzionato a realizzare un documentario su questa realtà, Ngaïbino si mette alla ricerca di una storia su cui concentrarsi: tra gli altri interpella suo cugino Rodrigue che, avendogli rivelato la sua condizione, propone a Ngaïbino di raccontare la sua vita.
Abbiamo rivolto a Elvis Sabino Ngaïbino alcune domande in esclusiva a proposito di Le fardeau.
Pensa che la storia di Rodrigue sarà d’aiuto per le persone africane che, affette di AIDS, faticano ad accettare la loro condizione a causa di un pregiudizio sociale, finendo per vivere in uno stato di auto-marginalizzazione?
Sono fiducioso e penso che questa storia potrà avere un impatto positivo sulle persone. Sono molto ottimista al riguardo, così come Reine e Rodrigue, altrimenti non avremmo mai deciso insieme di fare questo film. Contribuire a cambiare la prospettiva sia delle vittime dell’emarginazione che dei carnefici è lo scopo centrale di questo lavoro.
Crede che essere il protagonista di questo film abbia aiutato Rodrigue stesso a prendere coraggio e ad affrontare la comunità cui appartiene ammettendo la propria malattia?
Sì, credo che per lui sia stato determinante. Quando abbiamo iniziato le riprese era titubante, ma con il passare del tempo l’ho visto sempre più coinvolto nel progetto e deciso a mettersi in gioco in prima persona pur di scalfire la percezione distorta dei malati di AIDS in Africa.
Quali differenze ci sono tra una narrazione della Repubblica Centrafricana realizzata da un regista indigeno e quella fatta da un cineasta straniero?
Non vedo troppa differenza. L’unica differenza che riscontro, e si tratta di un vantaggio per un regista indigeno, sarebbe che avendo sempre vissuto in quel Paese, egli dispone di una visione molto più ampia e profonda di esso. Tuttavia ritengo che un regista è colui che ha la capacità di trascendere sé stesso per affrontare potenzialmente qualsiasi tema o Paese, semplicemente immergendosi nella sua storia e nella sua cultura, o documentandosi in modo molto preciso. Un regista è come un grande viaggiatore. È senza confini. Dire che c’è differenza tra una storia raccontata da un regista indigeno e da uno straniero sarebbe come autocensurarsi, vietare ad altri registi di venire a raccontare la storia del mio Paese. Io stesso intendo occuparmi di tutto ciò che sta accadendo in Occidente. Sarebbe assurdo sminuire chi racconta il mio Paese solo perché non ci è nato.
Sarà possibile distribuire il film in Repubblica Centrafricana? In Italia invece, quando – e attraverso quali canali – potremo vedere il film dopo il passaggio a Filmmaker?
Il mio Paese non ha un cinema vero e proprio né un circuito di distribuzione come avviene in Europa o in alcuni altri Paesi africani. Tuttavia prevediamo di organizzare una serata di proiezione ufficiale alla presenza del pubblico e delle autorità, probabilmente nell’ambito de L’Alliance française de Bangui – Istituto dedito alla diffusione della lingua francese e allo scambio culturale tra i due paesi, ndr – o in un luogo improvvisato. In Italia Le Fardeau sarà distribuito: vederlo sul piccolo schermo è per voi solo questione di tempo, avverrà quando il film sarà stato proiettato in altri festival e, mi auguro, al cinema. La RAI, che segue da vicino il mio lavoro e che ringrazio per avermi sempre sostenuto, possiede già i diritti di trasmissione, così come il canale francese criptato Canal+ Afrique. Tramite questo canale, il pubblico africano potrà beneficiare di una distribuzione abbastanza ampia.
Questo è il secondo documentario con cui racconta diverse realtà del suo Paese, ce ne sono altre che intende esplorare? Ci sarà spazio anche per film di finzione?
Se il Buon Dio mi concederà una vita lunga, la stessa forza e ispirazione che mi ha dato fino a oggi, non mi limiterò a questi due documentari. Ho intenzione di raccontare diverse realtà del mio Paese che non sono state ancora messe in luce da registi indigeni e stranieri. C’è molto da raccontare sulla Repubblica Centrafricana e c’è spazio per tutti. La finzione è il mio genere preferito, è ciò che amo di più, e anche i miei due documentari possono apparire come fittizi, in fondo. Non mi piace però relegare il documentario al ruolo di trampolino di lancio verso la finzione, sarebbe una mancanza di rispetto verso il documentario che mi ha fatto scoprire la mia verità più profonda. Sì, ci sarà spazio per la fiction e, se Dio vuole, si tratterà di un grande spazio.