Linda Randazzo, classe 1979, palermitana, pittrice, disegnatrice, ritrattista, costumista e scenografa che attualmente svolge l’attività di tutor per studenti diversamente abili all’ Accademia di Belle Arti a Palermo, definita dalla critica “espressionista contemporanea”, nella sua pittura mette a nudo vizi e virtù del nostro tempo, mescolando storia personale e collettività. Al centro della sua ricerca c’è la figura e l’uomo e la donna sono “cavie” esistenziali, metafore di solitudine, disagio interiore e sociale. I sui perché ce li racconta in questa intervista.
Chi sei e cosa fai?
Sono una pittrice… siciliana, la mia connotazione geografica di nascita, per vicissitudini storiche e antropologiche, ha complicato il già complesso ruolo di artista donna. Dipingo dall’età di 3 anni, ho studiato al liceo artistico prima, poi due anni di storia dell’arte (uno a Firenze), successivamente due corsi in Accademia a Palermo, poi un Master in Design per il Teatro.
Hai studiato Scenografia e Pittura all’Accademia di Belle Arti di Palermo e hai frequentato un master per il teatro al Polidesign di Milano , poi hai lavorato per il Teatro Garibaldi di Palermo/ Unione dei Teatri d’Europa per il regista Claudio Collovà, quanto ha inciso l’aspetto scenografico-teatrale nella tua pittura?
La mia formazione con Enzo Patti in Accademia mi ha portato a cercare un incontro concreto con il teatro e altri artisti/maestri, il primo fu proprio Claudio Collovà. Quando cominciai a lavorare al teatro Garibaldi, la cui direzione era di Matteo Bavera, ero soltanto un’assistente ai costumi; poi incontrai Andrea Cusumano (allora assistente di Hermann Nitsch). Cusumano stava lavorando al teatro di Tadeusz Kantor, ad un progetto che era un omaggio alla Classe Morta, a quel tempo era docente al Central Saint Martins di Londra. Lavorai con molti giovani performer inglesi. La drammaturgia dello spettacolo veniva scritta successivamente alla realizzazione plastica di oggetti scenici, gli artisti visivi e i performers si scambiavano ruoli e committenze, andammo tutti in scena. Non ho più smesso di lavorare con il teatro e di fare performances. Studio ancora con artisti internazionali per cui le arti della performance, dell’istallazione, del teatro e altri linguaggi si mischiano. Non so se tutto questo abbia influito nella mia pittura ma nella mia concezione aperta delle arti sicuramente si.
Da quando non ti dedichi al teatro?
In realtà il mio ultimo spettacolo come costumista risale a due mesi fa. La pittura però è autarchica e lì sono sola a comandare, realizzo il mio totale narcisismo artistico. Ho scelto la pittura perché è qualcosa che gestisco da sola. La sua iconicità la rende immortale e meglio deputata a sopperire la paura della morte; la concepisco quasi come un’arte legata a una dimensione del “saper fare”. Mi sento più legittimata a dire di saper dipingere che fare una performance. Stessa cosa con il disegno che è ancora di più la mia lingua madre. A teatro sono sempre schiava e serva della scena. Nessun oggetto scenico è mai quello che hai pensato, in mano al regista, all’attore, sotto le luci etc. etc. cambia sempre. Questa è la sua magia, in teatro si sperimenta l’effimero, la morte collettiva; nella pittura produci un cadavere che persiste, un’icona in cui sei solo nel costruirla. Tutto quello che so della scena mi risuona dentro come artista, cerco spiegazioni metafisiche all’impossibilità di accettare il reale senza darvi un senso artistico, estetico. Vedo tutta la realtà come una messa in scena.
Cosa ti affascina della figura umana e del ritratto?
Ancora la morte, l’effimero, il caduceo, la Vanitas. Il ritratto è ciò che rimane, ha del magico e del metafisico in cui si coglie l’essenza indicibile di un’anima e la metti sul piano bidimensionale. Chi ti commissiona un ritratto, ti sta affidando le sue sembianze umane perché tu le restituisca all’eterno. Ha del macabro, del mortuario, del sacerdotale. Potrei anche solo fare ritratti. Il corpo invece, diventa il luogo dove si combatte la dimensione materiale dell’essere vivi, è espressivo, cambia, si ammala, perisce, invecchia, muore, ama e odia. Vi è il grande mistero dell’esistere. Per me tutti i corpi da dipingere, sotto l’ottica della carne che diventa pittura e sensualità sono meravigliosi. A me non importa riprodurre l’anatomia ma il mistero dell’altro, che è sempre diverso da me ma nel quale io cerco me, sempre distorto dalla mia percezione.
Hai un approccio antropologico alla pittura, perché prediligi dipingere corpi e ritratti femminili immortalati in gesti o momenti quotidiani, con piglio quasi fotografico?
Io direi che non è mia intenzione ma è ciò che succede guardando le mie “figure”. Si può ricostruire una geografia dell’anima. Un contesto sociale, un’atmosfera umana. Sono stata fotografa e la fotografia mi ha insegnato a “cogliere”. Quando non posso disegnare scatto una foto e scappo. Prendo di petto i miei soggetti in modo “osceno”. Non c’è nulla di più assurdo e surreale della realtà. La vita degli altri non è la mia, è pura contemplazione. Si guarda sempre disperatamente in soggettiva. Nella donna che disegno o dipingo cerco me stessa. Descrivo la condizione spesso disperata dell’essere casalinga, moglie, madre, schiava dei maschi, imbottita di emozioni negative, ingrassata, sciupata e in questa aberrazione sociale sul corpo femminile, cerco l’ essenza erotica e meravigliosa, la bellezza in sé della donna, sotto le mentite spoglie del corpo trasformato da una vita ingiusta. Cerco la maternità, la sessualità, il sesso, l’amore.
Dipingi figure umane basandoti su fotografie o immagini di quotidiani e social media oppure a memoria?
Non ho mai disegnato a memoria. Mi sento una pittrice fenomenologa. Come Cézanne o gli altri che guardano, che dipingono ciò che vedono e soprattutto ciò che sentono. Questo concetto della “logica della sensazione” nella pittura, di cui parlava Deleuze, mi ha fatto comprendere che “razza” di pittrice sono. Io dipingo quello che percepisco, quello che posso sentire direttamente. Ho dipinto per anni dal vero, quando le mie immagini arrivano dalle foto, so come funziona il mio occhio pittorico. Con arroganza posso dipingere da fotografia anche senza cadere in quella cosa disdicevole che io chiamo pittura fotografica.
Alessandro Bazan, tuo maestro di Pittura e amico quanto ha influenzato il tuo lavoro?
All’inizio tutto, fu l’incontro con lui che determinò che io ricominciassi l’Accademia, dopo avere finito scenografia, studiando ancora pittura, lui capì che sarei diventata una “vera” pittrice. L’incontro con la pittura di Bazan fu turbolento. Mi disse che avrei dovuto buttare tutto e ricominciare da capo con cognizione, cioè avrei dovuto studiare. Grazie a Bazan conobbi la cosiddetta “Scuola di Palermo”, Francesco De Grandi, Fulvio Di Piazza e Andrea Di Marco, rappresentavano la pittura contemporanea italiana in Sicilia, una figurazione nuova, giovane, dinamica; erano i giovani pittori meno provinciali che si potessero incontrare qui negli anni ‘90. Grazie ad Alessandro Bazan conobbi la pittura contemporanea internazionale. In modo maieutico mi portò alla consapevolezza di cosa significhi fare ricerca ed essere un’ artista. Non rinnego la sua paternità, avevamo e abbiamo qualcosa in comune. Mi hanno spesso penalizzata per essere stata sua “ allieva” e per avere qualcosa nel mio lavoro di quella figurazione che a qualcuno può fare storcere il muso. Per me non è penalizzante appartenere ad un contesto culturale. Anzi. La storia ci darà ragione.
Dal tuo atelier a Mondello di Palermo, dove vivi e lavori, spii la vita e dipingi in solitudine “gente comune”, corpi spiaggiati di donne –matrone abbrustolite dal sole, corpi massicci di maschi -padroni, ti aggiri nelle borgate storiche di Palermo per cogliere le contraddizioni di questa città incantevole e incomprensibile al tempo stesso, ma ti consideri una pittrice- realista pasoliniana?
Si, pasoliniana, un poco sociologa mista ad esteta, con una propensione e talento segreto per la politica. Sono un’attenta osservatrice e credo che la società sia complessa e che entri nelle nostre carni a mutarle dal fuori al dentro. In un mio ultimo quadro ci ho visto il neorealismo italiano. Tutto ciò è il risultato di qualcosa che non decido prima. Non è intenzione diretta della mia poetica. Ho fatto molti ritratti all’ aristocrazia e alla borghesia siciliana. Ci sono anche loro nella commedia della vita che rappresento in pittura.
Negli acquarelli noto una tensione di sottrazione dei contorni e una maggiore concentrazione sul segno, gesto e colore puro, senza sbavature, cosa denota questa svolta più essenziale e sintetica ?
Penso che le tecniche pittoriche siano come suonare strumenti diversi. La matita è direttamente astratta e gestuale, sintetica. Amo schizzare. L’olio è monumentale, scultoreo, pastoso, espressionista, impressionista, nervoso, pedante, patetico, retorico. L’acquarello è un gesto puro, essenziale, marziale. A seconda di come mi sento, dipingo con uno strumento o con un altro.
Hai una pittura colta e raffinata post-realista, che denota la tua passione per la Storia dell’arte e in particolare per la pittura tedesca del Rinascimento, per il Novecento , quali sono i pittori /pittrici contemporanei più vicino alla tua sensibilità che continuano ad ispirarti?
In realtà io amo tutta la storia dell’arte, sicuramente dal Quattrocento italiano si nota un interesse per il ritratto, di cui mi sono innamorata quando studiavo storia dell’arte a Firenze, amo i pittori tedeschi e fiamminghi per la diversa concezione della linea e della luce. Credo che nel fragile equilibrio del rapporto tra linea e colore si stabilisca la propria firma nella pittura. Prediligo il Seicento, i veneziani, Caravaggio che ha inventato quello che per me è guardare la realtà e poi gli spagnoli. Poi l’Ottocento francese, Cézanne, Van Gogh, Matisse che è l’unico che ho copiato. Naturalmente il Novecento italiano e il ritorno all’ordine è quello che sto guardando adesso. Dei contemporanei ho guardato Lucian Freud, Jenny Saville, Elizabeth Payton, David Hockney, Alice Neel, Paula Rego, la Dumas, tante donne finalmente che vengono fuori nella pittura contemporanea! Riguardando Guttuso, ci vedo quasi quasi un nonno.
Cosa significa essere donna-pittrice a Palermo senza una galleria che ti rappresenta ?
Problemi di sopravvivenza. Una donna “sola” qui, senza appoggi può avere dei disagi, oltre a quelli dovuti a qualche strascico di maschilismo. Collaboro e ho collaborato senza esclusiva con alcune galleria tra Palermo e Modica, in cui sono presenti bravi artisti giovani e contemporanei, altri storici. Purtroppo il mercato locale non funziona sufficientemente, non soddisfa in toto le mie necessità e ambizioni di artista, cioè di stare sul territorio italiano, di partecipare al dibattito pubblico sulla pittura, entrare nel mercato nazionale e confrontarmi con la critica e il pubblico nazionale e magari internazionale. Esprimo queste necessità senza nulla togliere agli sforzi reali che fanno tutti quelli che promuovono il mio lavoro sul territorio siciliano; in primis Francesco Galvagno il mio collezionista e fondatore di ElenKa, e tutti quelli condividano con me, le medesime problematiche legate al sistema dell’ arte quasi inesistente della Sicilia. Senza il loro aiuto non saprei come muovermi, il mio curriculum e i miei lavori parlano da soli, eppure non bastano. Suppongo ci voglia più sostegno da parte di critici e curatori per entrare in contatto con il mercato nazionale, delle istituzioni della cultura praticamente assenti a Palermo.
I tuoi colleghi pittori ti coinvolgono in mostre collettive o altre iniziative per crearti opportunità di mostrare il tuo lavoro?
Quando ero più giovane e bisognosa di riconoscimento sono stata aiutata. I miei colleghi siciliani da un poco di tempo non mi coinvolgono più in cose significative e importanti, anche se ho la loro profonda stima…figurarsi quelli lontani con cui intrattengono rapporti solo epistolari. Da due anni Luigi Antonio Presicce, (che ho conosciuto grazie alla sua attività con la Scuola di Santa Rosa in collaborazione con Francesco Lauretta), mi invita al Simposio di Pittura presso la Fondazione Lac o Le Mon in Puglia, dove con altri artisti pittori, una ventina circa, si vive e si discute, si lavora, siparla finalmente di pittura per circa un mese consecutivo, vivendo nella stessa residenza a stretto contatto. Il vero modo di fare ricerca e confrontarsi. Infatti sono molto grata a lui per avermi coinvolta in una cosa così bella. Credo che la mia posizione geografica mi penalizzi. Io faccio quasi tutto da sola. Anche trovare i collezionisti.
Fare la Tutor in Accademia di Belle Arti di Palermo per te è soltanto un modo per “sbarcare il lunario”, oppure una opportunità di rigenerazione di scambio? Perché?
Entrambe le cose. La più interessante è che entri in un luogo dove tutto il giorno si parla di arte. Purtroppo è un lavoro poco remunerato e precario. Ho un contratto occasionale che dura un semestre e poi viene rinnovato. Un lavoro così duro per le responsabilità che ho e per il ruolo che sostengo, considerato come una specie di part time. Non credo sia sostenibile a lungo nel mio futuro. Sto molto tempo con gli studenti e poco nel mio studio.
La pittura figurativa è sempre contemporanea, perché?
Si! Per tutto quello che ho detto fino a questo momento! La pittura figurativa è dentro l’uomo e l’uomo non è ancora del tutto finito. Guardate i “120 anni di pittura italiana” alla Triennale di Milano…risponde per me.
Hai mai pensato di abbandonare Palermo, se si in quale altra città vivresti e perché?
Ci penso ogni giorno. Mi piacerebbe essere nomade , stare qui e li per dei mesi, fare delle mostre o residenze, vendere, guadagnare solo con l’arte, conoscere le persone e poi tornare. Se dovessi abbandonare Palermo andrei via dall’Occidente. Sono belli i sogni dei bambini e degli artisti.