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Maestro del rosa e del grottesco. Ostenda celebra James Ensor con una grande mostra sulla natura morta

James Ensor, Rozen (Roses), 1892. Koninklijke Musea voor Schone Kunsten van België,Brussel. Foto _ J. Geleyns.
James Ensor, Rozen (Roses), 1892. Koninklijke Musea voor Schone Kunsten van België,Brussel. Foto _ J. Geleyns.
Come petali di una rosa,  le nature morte belga dell’Ottocento e del Novecento avvolgono il bocciolo più prezioso: un nucleo di still life realizzate da James Ensor, che il Mu.ZEE di Ostenda espone in una mostra capofila di una serie di iniziative che in tutto il Belgio celebrano il pittore. Dal 16 dicembre 2023 al 14 aprile 2024. 

Noble Rose of all Roses, Rose of the
hours, Rose of the winds, proud Rose
of the warriors of England, diamond
Rose, nostalgic Rose of fiery lands,
lunar Rose, capital Rose, dreamy Rose
of summer nights, Rose of poets, be
always Rose, Rose, Rose in my eyes.

C’erano anche queste parole, una sorta di poesia, nel discorso che James Ensor tenne a Ostenda in occasione della consegna del Premio Verhaeren nel 1923. Un’elegia della rosa, il più classico dei fiori, quello che per tradizione è diventato emblema di romanticismo, in tutte le possibili declinazioni che può il concetto può assumere. Non a caso è proprio una rosa che simbolicamente Ostenda dona al suo più illustre pittore, che nella città portuale affacciata sul Mare del Nord ha vissuto e creato le sue opere per tutta la vita.

A 75 anni dalla sua scomparsa, la comunità lo ricorda con una serie di eventi ed esposizioni che ne celebrano l’attività. Tra queste, la più importante in città è la mostra Rose, Rose, Rose à mes yeux. James Ensor e la natura morta in Belgio 1830 – 1930, organizzata dal Mu.ZEE. Gli spazi del vecchio magazzino cittadino – oggi museo che l’anno prossimo verrà meglio adattato alla sua nuova funzione – sono stati momentaneamente modificati con strutture in legno per accogliere le opere. Anche in questo caso, nella scelta espositiva, torna la forma della rosa: attorno, come petali, un compendio dell’interpretazione belga del celebre genere artistico; al centro, in una sala a parte, le still life che lo stesso Ensor ha realizzato, il bocciolo più prezioso e profumato.

James Ensor, Blauwe fles en kip (Flacon bleu et poulet), 1880. Quintet Private Bank (Europe) S.A. Foto_ Quintet Private Bank (Europe)

La comparazione tra le nature morte di Ensor e quelle dei suoi colleghi accende subito l’attenzione sul maggior pregio della specialità: la possibilità di variare. Spesso percepito come un genere noioso e ripetitivo, adatto perlopiù all’accademia e agli esercizi di stile, lo still life rappresenta invece la quintessenza dello spirito artistico. È un classico, ma allo stesso tempo si apre alla possibilità di essere interpretato in maniera tanto particolare da far dimenticare di essere di fronte a un tema ricorrente. È un virtuosismo estremo, un gesto accondiscendente e sprezzante al tempo stesso. Come a dire: non mi serve riprodurre qualcosa di assurdo quando a essere assurdo è il mio stile. E lo stile di Ensor, di certo era fuori dal comune. Appare tremolante e incerto, nervoso ed elettrico, a volte sintetico ma mai avaro di dettagli. Completamente immerso nel grottesco, il pittore riusciva a unire ironia e inquietudine, avendo successo nella complessa impresa di fare sorridere ma anche riflettere.

Così Ensor, insieme a paesaggi, interni, ritratti, soggetti mitologici e religiosi, realizzò oltre 200 nature morte, dunque circa un quarto della sua intera produzione. Un genere che ben si prestava al suo stile di vita domestico e riservato, che poteva esercitare nello spazio del suo studio, con la possibilità di selezionare gli oggetti da inserire nella scena – fiori e frutta ovviamente, ma anche stoviglie e tessuti – e sviluppare varie soluzioni per affiancarle. Se a livello simbolico essi evocano un sentimento di transitorietà e fugacità dell’esistenza umana, coronando le memorie di gloria, grazia, vanitas, e soprattutto di memento mori, dal punto di vista compositivo esse rappresentano la possibilità di ordinare il mondo due volte: prima di dipingere e durante la pittura.

Per l’osservatore, ogni natura morta diventa allora un meccanismo contemplativo, ingranaggio estetico che l’artista assembla secondo necessità visiva. È uno spazio d’osservazione, una messa in scena calibrata per assorbire l’occhio. Come un paesaggio. Una volta al suo interno, ha inizio l’esplorazione di un mondo di dettagli, variazioni ed equilibri. Si può notare, ad esempio, come nelle prime still life di Ensor il tavolo non sia mai completamente coperto dalla tovaglia, con il legno che sempre emerge; o che accanto ad alimenti ed oggetti quotidiani, il pittore inserisca conchiglie, chinoiseries ed elementi di provenienza esotica che trovava nel negozio della madre e della zia. Esemplificativa la presenza in mostra di tre versioni di Blue Flask and Chicken, dove mano a il pittore inserisce dettagli e soprattutto cambia i toni cromatici.

James Ensor, Mia madre morta. La conseguenza dei ciarlatani, 1915. Verzameling Georges Hiltrop-Massenhove. Foto_ Steven Decroos

Infatti, al di là di cosa si inserisce, la sua impronta Ensor la da nel come inserisce. Ovvero con uno stile sfocato, caratterizzato dalla luce e non dalla linea. In luogo di scene cupe e ombrose, il pittore dipinge situazioni immerse in una luce chiarissima, perlopiù rosa, che ammanta ogni cosa di una trasparenza che fa sembrare il dipinto quasi incompiuto. In questo modo i soggetti acquisiscono una fluidità inedita, galleggiano in un equilibrio che pare impalpabile. Sono lucidi, quasi gelatinosi, il loro effetto è dolce e brillante al tempo stesso. Tanto che Ensor trae questi spunti dalla natura morta, ma li trasporta anche in altri generi. Mia madre morta. La conseguenza dei ciarlatani – che ritrae la donna senza vita a letto, con in primo piano un vassoio ricolmo di bottiglie, forse medicinali – può essere considerata infatti una scena di genere derivata dalla combinazione di una natura morta e di un ritratto.

Proprio sull’ibridazione Ensor continuerà a insistere anche quando definirà l’immaginario per cui tutti lo conosciamo, ovvero quello popolato da strane creature, maschere stravaganti e situazioni improbabili, che saltuariamente fanno capolino anche nelle nature morte. Conserva la luce e la materialità impalpabile dell’Impressionismo, ma la contamina con innesti simbolisti, come appunto sono le maschere; oppure ne esaspera la luminosità per sfiorare l’astrattismo; e ancora le inserisce in contesti satirici che ne esaltano la portata politica e sociale. Tale versatilità, capace di mantenere però uniformità stilistica, è garantita proprio dalla palette pastello che diventerà identificativa di Ensor, ma anche dalla maschera stessa. Per definizione si tratta di un apparecchio che, applicato sul viso, si presta a ottenerne una contraffazione o a renderne impossibile il riconoscimento; e di conseguenza si fa veicolo di significati differenti a secondo della fattura e del contesto, come anche può rimanere uno strumento estetico in grado di suscitare un vento fantastico nella quotidianità.

James Ensor, Mask Confronting Death

In Mask Confronting Death, per esempio, i personaggi mascherati sono allestiti come fossero una natura morta, non compiono azioni ma posano immobili, manifestano le loro peculiarità stilistiche, evocano memorie e narrazioni, godono e fanno godere di un equilibrio formale dolce, zuccheroso anche se ci pone di fronte scheletri e figure grottesche, per certi versi spaventose. Di certo l’universo di Ensor collima col fiabesco e la sua carica di leggerezza e mistero, ma allo stesso tempo riesce a ripiombare al suolo ed esaltare la materia nelle sue caratteristiche più sensibili. La buccia della frutta è quasi trasparente, mentre la polpa è gonfia di succo; le noci sono rugose e le pesche invece solcate da una chiara lanugine. Pur essendo destinate alla vista, sono immagini che riescono a coinvolgere anche l’olfatto, il gusto e il tatto. Sono opere olistiche, potremmo dire.

Di certo lo è il dipinto simbolo dell’esposizione, Roses. I fiori – poggiati in un vaso trasparente insieme a delle viole, oppure deposti sul tavolo in piccoli mazzi – sfumano dal rosa intenso a quello più mite, digradano e s’accendono come una melodia. I loro petali sono carnosi, solcati da qualche goccia d’acqua, invitano a sfiorarli, a morderli, a impossessarsi della loro dolcezza come accade con le guance di un bambino. Frustrati dall’impossibilità di soddisfare questo desiderio, non rimane altro da fare che non provare, idealmente, ad annusarle. L’aroma, addormentato nello spazio tra un petalo e l’altro, inizia così a emergere, a gonfiare le rose, che nel tempo in cui inspiriamo si dilatano fino a saturare l’intero spazio dell’opera.

Tutto attorno, fuori e dentro di noi, non c’è che rosa. Rose, Rose, Rose in my eyes.

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